Sentenze Pubblico impiego- Dimissioni –Mobbing – procedimento disciplinare -riammissione in servizio –licenziamento

Sentenze Pubblico impiego- Dimissioni –Mobbing – procedimento disciplinare -riammissione in servizio –licenziamento

Dimissioni –Mobbing – procedimento disciplinare -riammissione in servizio –licenziamento

 

“Come è stato già osservato da questa Corte, il primo comma dell’art. 32 (L. 183/2010), nel modificare l’art. 6 della Legge n. 604 del 1966, “ha sostanzialmente creato una nuova fattispecie decadenziale, costruita su una serie successiva di oneri di impugnazione strutturalmente concatenati tra loro e da adempiere entro tempi ristretti” (Cass. n. 22824 del 2015). Sotto la dicitura “Decadenze e disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo determinato” il legislatore è intervenuto per modificare, in primo luogo, ed in via generale, la disciplina dell’impugnazione dei licenziamenti. È stato introdotto, accanto al termine di decadenza di sessanta giorni per l’impugnazione stragiudiziale del licenziamento (già esistente), un ulteriore termine di duecentosettanta giorni per la proposizione del ricorso giurisdizionale. Tali termini sono stati successivamente modificati dalla l.28 giugno 2012, n. 92 (c.d. Legge Fornero) rispettivamente in novanta e centottanta giorni. Il secondo comma ha espressamente sancito la regola della operatività del termine di decadenza in tutti i casi in cui il lavoratore contesti la validità del licenziamento.

Con il terzo e quarto comma, si è operata un’ulteriore estensione, stabilendo che il regime delle decadenze trova applicazione a fattispecie che prima della L. n. 183 non ne erano toccate. E’ stata così prevista l’applicazione della disciplina della decadenza anche ad altre forme contrattuali ed atti datoriali. Per l’effetto, occorre impugnare stragiudizialmente nel termine di sessanta giorni (poi divenuti novanta) e quindi proporre l’azione giudiziaria nel termine successivo di duecentosettanta giorni (poi centottanta): i licenziamenti che presuppongono la risoluzione di questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro ovvero alla legittimità del termine apposto al contratto; il recesso del committente nei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, anche nella modalità a progetto, di cui all’art. 409 c.p.c., n. 3); il trasferimento ai sensi dell’art. 2103 c.c., con termine decorrente dalla data di ricezione della comunicazione di trasferimento; l’azione di nullità del termine apposto al contratto di lavoro, ai sensi del D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368, artt. 1, 2 e 4 e successive modificazioni, con termine decorrente dalla scadenza del medesimo.

Quanto al contratto a tempo determinato, il legislatore non ha disciplinato in modo autonomo il regime delle decadenze per il tempestivo esercizio dell’azione giudiziaria, ma, come si evince dalla formulazione letterale dell’art. 32, si è limitato ad estendere anche ai contratti a tempo determinato l’applicazione delle disposizioni del novellato L. n. 604 del 1966, art. 6. … l’art. 32, nel definire il campo di applicazione della nuova norma, la estende “…anche a tutti i casi di invalidità del licenziamento”. Trattasi di una norma di chiusura che deve intendersi riferita a tutte le ipotesi di recesso unilaterale del datore da un rapporto di lavoro che sia già in essere o perfezionato (v. Cass. n. 22627 del 2015, n. 26163 del 2016 e n. 74 del 2017), con la sola esclusione della ipotesi del recesso intimato durante il periodo di prova (Cass. n. 7801 del 27 marzo 2017). A nulla rileva il riferimento, contenuto nella Legge n. 604 del 1966, al rapporto di lavoro a tempo indeterminato, poiché il secondo comma dell’art. 32 Legge n. 183 del 2010 ha comunque espressamente incluso nell’alveo applicativo del regime decadenziale dettato dall’art. 6 “tutti i casi di invalidità del licenziamento”, a prescindere dalla natura del rapporto (se a tempo determinato o a tempo indeterminato).” Cass. Lavoro sent. 23851/2017

“Questa Corte ha sancito….che ai sensi della L. 20 maggio 1970 n. 300 art. 7 comma 2, in caso di irrogazione di licenziamento disciplinare, il lavoratore ha diritto, qualora ne abbia fatto richiesta, ad essere sentito oralmente dal datore di lavoro; tuttavia, ove il datore, a seguito di tale richiesta, abbia convocato il lavoratore per una certa data, questi non ha diritto ad un differimento dell’incontro limitandosi ad addurre una impossibilità di presenziare, poiché l’obbligo ad accogliere la richiesta del lavoratore sussiste solo ove la stessa risponda ad una esigenza difensiva non altrimenti tutelabile.” Cass. Lavoro sent. 5314/2017

“… principi di diritto in materia di giusta causa, che deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, dell’elemento fiduciario, dovendo il giudice valutare da un lato la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all’intensità del profilo intenzionale, dall’altro, la proporzionalità tra tali fatti e la sanzione inflitta, per stabilire se la lesione dell’elemento fiduciario, su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro, sia tale, in concreto, da giustificare la massima sanzione disciplinare.” Cass. Lavoro sent. 56/2017 – Principi di diritto “…non ha copertura costituzionale il diritto a rimanere in servizio per ottenere l’incremento del trattamento di quiescenza, poiché il bene protetto dall’art. 36 cost., è solo quello che tutela il conseguimento del minimo pensionistico (Corte Cost. sent. 33/2013).” Cass. Lavoro sent. 16354/2017

Le dimissioni del lavoratore subordinato costituiscono un atto unilaterale recettizio avente contenuto patrimoniale a cui sono applicabili, ai sensi dell’art. 1324 c.c., le norme sui contratti, salvo diverse disposizioni di legge.” Cass. Lavoro sent. 1070/2016

“Questa Corte di cassazione, (Cass. 14 agosto 2008 n. 21660), ha avuto modo di chiarire che, a seguito della contrattualizzazione del rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti, il potere di disporre la riammissione in servizio previsto dall’art. 132 t.u. n. 3 del 1957 si è trasformato in potere privato. Dunque, è stato precisato che l’istituto della riammissione in servizio del dipendente pubblico già dimissionario, ai sensi dell’art. 132 del d.P.R. 3 del 1957 e 516 del d.lgs. 297 del 1994, presuppone la decisione discrezionale dell’amministrazione volta alla verifica del soddisfacimento dell’interesse pubblico con la copertura del posto vacante senza concorso, sicché resta esclusa la configurabilità di un diritto soggettivo all’accettazione di quella che, a seguito della privatizzazione del rapporto di lavoro, è da qualificare in termini di proposta contrattuale. Inoltre, poiché il potere amministrativo è procedimentalizzato dalla specifica disciplina legislativa, recante l’obbligo della valutazione dell’interesse pubblico, dell’esame tempestivo e secondo correttezza e buona fede della domanda / nonché della motivazione della decisione di riammissione (ancorché negativa), il richiedente, non può chiedere la stipulazione del contratto, ma solo il risarcimento del danno da inadempimento di tali obblighi strumentali (principio affermato con riferimento al settore scolastico e a domanda di riammissione in servizio e risarcimento del danno proposta da direttrice didattica cessata dal servizio per dimissioni). E’ proprio la necessaria valutazione dell’interesse pubblico che preclude, dunque, la possibilità di ravvisare la continuità tra il nuovo impiego e quello precedente alla riammissione in servizio ed anzi la riammissione determina necessariamente la costituzione di un nuovo rapporto di lavoro (vd. in tal senso anche la giurisprudenza amministrativa : Cons. St., sez. IV, 5  agosto 2005 n. 4200, in materia di effetti derivanti dal blocco delle assunzioni; Cons. St., sez. V, 16 aprile 1998 n. 458). A fronte di tale ricostruzione dell’istituto è evidente che la individuazione della disciplina applicabile per il calcolo del trattamento di fine rapporto non potrà che conformarsi al presupposto della novità del rapporto lavorativo successivo alla riammissione.” Cass. Lavoro sent. 18839/2017 – Principio di diritto

“Ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo devono ricorrere: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) nesso eziologico tra le condotte descritte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità; d) l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante tutti i comportamenti lesivi.” Cass. Lavoro sent. 2148/2017

2022-06-02T14:43:30+02:00
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