Giurisprudenza sul procedimento disciplinare dei dipendenti pubblici

Giurisprudenza sul procedimento disciplinare dei dipendenti pubblici

Sentenza n. 1478 del 27/1/2015 – Dirigenza sanitaria – Licenziamento disciplinare – Parere Comitato Garanti – Esclusione- Modalità della contestazione

La sentenza riguarda il ricorso di un Istituto zooprofilattico contro la sentenza della Corte d’Appello che aveva dichiarato la illegittimità del licenziamento di un dirigente sanitario, ritenendo la natura disciplinare e non dirigenziale della responsabilità addotta – con conseguente irrilevanza del parere del Comitato dei Garanti – e rilevando anche la genericità della contestazione disciplinare, con conseguente illegittimità del recesso. L’Istituto ricorre alla Corte di Cassazione lamentando che nel decidere sul licenziamento non fosse stato dato rilievo al parere del Comitato dei Garanti, a questo proposito gli Ermellini stabiliscono che: “…nel pubblico impiego contrattualizzato trova applicazione anche con riferimento alla dirigenza sanitaria il principio di cui all’art. 59 del d.lgs. n. 165/01 secondo il quale tutte le fasi del procedimento disciplinare sono svolte esclusivamente dall’ufficio competente per i procedimenti disciplinari, il quale è anche organo competente alla irrogazione delle sanzioni disciplinari, ad eccezione del rimprovero verbale e della censura, con la conseguenza che il procedimento instaurato da un soggetto diverso dal predetto ufficio è illegittimo e la sanzione è affetta da nullità, restando altresì escluso l’intervento nel procedimento, del Comitato dei Garanti, che è previsto per il diverso caso di responsabilità dirigenziale”. I giudici proseguono citando anche la sent. Cass. Sez. Lavoro n. 8329 del 8/4/2010 per la quale in tema di dirigenza pubblica il previo conforme parere del Comitato dei Garanti, previsto dagli artt. 21 e 22 del d.lgs. n. 165/01 per il personale statale ed estensibile anche alle amministrazioni non statali in forza della norma di adeguamento (art. 27 comma 1 del d.lgs. n. 165/01) riguarda le sole ipotesi di

responsabilità gestionale per il mancato raggiungimento degli obiettivi nell’attività amministrativa e grave inosservanza delle direttive impartite dall’organo competente a ciò preposto e non anche le condotte realizzate in violazione di singoli doveri. Pertanto a nulla rileva il parere del Comitato dei Garanti in una ipotesi di licenziamento disciplinare del dirigente. Con riguardo all’altro motivo di ricorso che censura la sentenza dell’appello per aver ritenuto le contestazioni disciplinari generiche, la Corte, ritenendo corretto l’operato dei giudici del merito, sottolinea che la genericità delle contestazioni disciplinari inficia l’intera procedura e determina il vizio del provvedimento finale e ricorda a questo proposito la sentenza n. 9615 del 1/10/1997 delle S.U. nella quale è stato evidenziato come: “nel procedimento disciplinare è necessario, a salvaguardia del diritto di difesa dell’incolpato sopperire alla incompleta tipizzazione normativa delle varie fattispecie di illecito disciplinare con una rigorosa e circostanziata indicazione, nella contestazione dell’addebito, della specifica natura della condotta e del profilo sotto cui la stessa viene addebitata, in modo che possa essere agevolmente individuato dall’incolpato il particolare ed esatto angolo visuale dal quale la sua condotta dovrà essere vagliata. Ne deriva che la nullità delle contestazioni e delle accuse mosse all’incolpato per incertezza assoluta sul fatto e per la conseguente violazione del contraddittorio e del diritto di difesa può escludersi solo quando i fatti per i quali è stata ritenuta la responsabilità risultano tutti specificamente e analiticamente descritti nelle rispettive contestazioni trascritte nelle premesse sullo svolgimento del processo, in guisa da non lasciare adito a dubbi sull’esatta consistenza e configurazione dei fatti e delle violazioni addebitate.”

Sentenza n.2795 del 12/2/2015 – Licenziamento disciplinare a seguito di dimissioni, per abbandono arbitrario del servizio – Istituto delle dimissioni nel rapporto di lavoro pubblico

Il ricorrente, collaboratore scolastico presso una scuola media, esponeva di aver presentato le proprie dimissioni dal servizio con lettera del 21 marzo 2006, a decorrere dal giorno successivo e pertanto, a far data dal 22marzo, non si presentava più in servizio. Le dimissioni venivano accettate con decreto del

27/3/2016 e con nota del 5/5/2006 l’Ufficio scolastico provinciale gli contestava l’abbandono arbitrario del servizio e comminava la sanzione disciplinare del licenziamento con preavviso di quattro mesi per: assenza arbitraria e ingiustificata dal servizio per un periodo superiore a 10 giorni consecutivi. Il ricorrente chiede l’annullamento del licenziamento, la riammissione in servizio e la ricostituzione del rapporto. La Corte rigetta il ricorso ed a proposito dell’istituto delle dimissioni stabilisce quanto segue: “Questa Corte con la sentenza n.3267 del 2009 ha chiarito che nel regime del rapporto di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione successivo alla entrata in vigore del d.lgs. 3 febbraio 1993 n. 29, l’atto di dimissioni è negozio unilaterale recettizio, come nel rapporto di lavoro privato disciplinato dal capo 1 del titolo 2 del libro 5 del c.c., idoneo a determinare la risoluzione del rapporto di lavoro dal momento in cui venga a conoscenza del datore di lavoro, indipendentemente dalla volontà di questo ultimo di accettarle. Nel sistema scolastico questo principio va contemperato con le esigenze di natura organizzativa collegate al buon andamento della attività scolastica e la razionalizzazione del servizio, che impongono i termini per la presentazione delle domande…con riferimento a ciascun anno scolastico, nonché, ai sensi del D.L. n.357 del 1989 art. 10 convertito in l. n. 417/1989, la loro decorrenza dal 1 settembre di ogni anno. Nel caso, con l’inoltro della domanda di dimissioni si era quindi determinato l’effetto estintivo del rapporto di pubblico impiego, effetto estintivo avente la decorrenza stabilita dalla normativa del settore. Tale decorrenza non poteva però che essere la prima data utile successiva al momento della presentazione delle dimissioni ovvero…il 1 settembre 2007.”

Sentenza n. 10966 del 27/5/2015 – Procedimento disciplinare a seguito di procedimento penale – Applicazione alla fattispecie dell’art. 29 del CCNL del 10/4/1996 dirigenza regioni e autonomie locali – Conseguenze diverse delle diverse formule di assoluzione

Il ricorrente, in conseguenza di un procedimento penale a suo carico, era stato – in base al disposto dell’art. 29 del CCNL 19/4/1996 per la dirigenza regioni e autonomie locali – sospeso dal servizio con privazione della retribuzione fino alla

sentenza definitiva, con concessione di una indennità alimentare pari al 50% dello stipendio. A seguito del proscioglimento perché il fatto non costituisce reato, il ricorrente aveva chiesto il pagamento della intera retribuzione che gli sarebbe spettata se fosse rimasto in servizio. Domanda che era stata parzialmente accolta sia in primo che in secondo grado e contro cui la Amministrazione datrice di lavoro aveva proposto ricorso per Cassazione. La suprema Corte, decidendo sul ricorso, osservava che l’art. 29 del CCNL succitato applicabile alla fattispecie “prevedeva una perfetta restitutio in integrum, anche dal punto di vista retributivo e non soltanto di mera riammissione in servizio, solo a fronte della conclusione del processo penale con assoluzione con formula: il fatto non sussiste ovvero l’imputato non lo ha commesso, e non anche con la formula: il fatto non costituisce reato; che in forza di detta formula pattizia il dipendente aveva diritto alla riammissione in servizio senza ulteriori ristori economici; che l’assoluzione con formula: il fatto non costituisce reato lasciava impregiudicate eventuali iniziative disciplinari rimaste medio tempore sospese; che oltre al datore di lavoro anche il dipendente poteva avere interesse a che il procedimento disciplinare venisse promosso, poiché una eventuale decisione a lui favorevole avrebbe comportato una completa restitutio in integrum” cosa non avvenuta nel caso in esame poiché il dipendente si era dimesso prima della sentenza di assoluzione.

Sentenza n.12245 del 12/6/1015 – Licenziamento disciplinare – Ufficio competente per i procedimenti disciplinari

Gli Ermellini, rigettando il ricorso del lavoratore contro il suo licenziamento, chiariscono che non esistono norme che impongano alle Amministrazioni la costituzione di un ufficio disciplinare articolato e plurisoggettivo, ben potendo lo stesso essere rappresentato da una persona sola ed interna all’ente: “in materia di pubblico impiego privatizzato, ciascuna amministrazione ha, infatti, il potere di individuare l’ufficio competente di provvedimenti disciplinari secondo il proprio ordinamento” (cfr. anche Cass. n. 10600/2004 e Cass. n. 20981/2009). Inoltre, proseguono i giudici: “i procedimenti disciplinari contemplati dal D.lgs. n. 165 del

2001 art. 55, non costituiscono procedimenti amministrativi essendo condotti dalle pubbliche amministrazioni con i poteri propri del datore di lavoro privato”.

Sentenza n. 13158 del 25/6/2015 – Licenziamento disciplinare – Applicazione del principio di gradualità e proporzionalità delle sanzioni in relazione alla gravità della mancanza – Giusta causa di licenziamento

La Corte accoglie il ricorso di un lavoratore, infermiere professionale alle dipendenze di una ASL, licenziato per aver svolto la stessa attività presso un centro privato convenzionato con il SSN. Gli Ermellini ritengono infatti che la Corte territoriale non abbia ben valutato la gravità del comportamento in relazione alla sanzione applicata. Dicono infatti i giudici: “E’ principio consolidato di questa Corte che in tema di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità tra fatto addebitato e recesso, viene in considerazione ogni comportamento che, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la continuazione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali, dovendosi ritenere determinante, a tal fine, l’influenza che sul rapporto di lavoro sia in grado di esercitare il comportamento del lavoratore che, per le sue concrete modalità e per il contesto di riferimento, appaia suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento e denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti, conformando il proprio comportamento ai canoni di buona fede e correttezza (cfr., fra le altre, Cass. 22 giugno 2009 n. 14586; Cass. 26 luglio 2010 n. 17514; Cass. 13 febbraio 2012 n. 2013). La gravità dell’inadempimento deve essere valutata nel rispetto della regola generale della “non scarsa importanza” di cui all’art. 1455 c.c., sicché l’irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata solamente in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali, tale cioè da non consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro per essersi irrimediabilmente incrinato il rapporto di fiducia, da valutarsi in concreto in considerazione della realtà aziendale e delle mansioni svolte (Cass. 10 dicembre 2007 n. 25743). Non è sufficiente, per ritenere giustificato un licenziamento, che una disposizione di legge sia stata violata dal lavoratore o che un obbligo contrattuale non sia stato dal medesimo

adempiuto, occorrendo pur sempre che tali violazioni siano di una certa rilevanza e presentino i caratteri in precedenza enunciati. A tal riguardo, va assegnato rilievo all’intensità dell’elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, alla durata dello stesso, alla natura e alla tipologia del rapporto medesimo.”

Sentenza n. 13160 del 25/6/2015 – Sospensione cautelare dal servizio con retribuzione al 50% – Assoluzione in 1 grado non con formula piena – Appello contro la sentenza penale – Morte del lavoratore – Richiesta degli eredi di avere le differenze stipendiali del periodo di sospensione – Principio di diritto

Il dipendente, cancelliere di tribunale, era stato sospeso dal servizio con retribuzione al 50% a causa di un procedimento penale a suo carico. Assolto, ma non con formula piena, il lavoratore aveva fatto appello contro la sentenza penale ma poichè nelle more era deceduto, il giudice aveva emesso sentenza di non doversi procedere per estinzione del reato per morte del reo. A questo punto gli eredi avevano richiesto alla Amministrazione il pagamento delle differenze stipendiali per il periodo di sospensione. Alla fattispecie si applica l’art. 27 del CCNL Ministeri del 16 maggio 1995 (la causa inizia in primo grado davanti al tribunale il 1 aprile 1995) che stabilisce in caso di sentenza definitiva di assoluzione o proscioglimento con formula piena, che quanto corrisposto nel periodo di sospensione cautelare a titolo di indennità, verrà conguagliato con quanto dovuto al lavoratore se fosse rimasto in servizio. La norma però nulla prevede per le ipotesi diverse dalla assoluzione o proscioglimento con formula piena, lasciando una lacuna che attualmente è stata colmata prima con le norme di cui all’art. 14 del CCNL 12/6/2003: “Rapporto tra procedimento disciplinare e procedimento penale”, e successivamente con le disposizioni di cui all’art. 27 comma 3 del CCNL 14/9/2007: “Modifiche al sistema disciplinare di cui al CCNL 12 giugno 2003”. I giudici, accogliendo il ricorso degli eredi del lavoratore, cassano la sentenza con rinvio alla Corte territoriale che dovrà attenersi, nel decidere, al seguente principio di diritto: “In tema di sospensione cautelare dal servizio nell’impiego pubblico, l’art. 27 comma 7 del ccnl comparto Ministeri del 16 maggio 1995, nel prevedere che

quanto corrisposto a titolo di indennità all’impiegato nel periodo della suddetta sospensione deve essere conguagliato con quanto dovuto se il lavoratore fosse restato in servizio, solo in caso di proscioglimento con formula piena, non consente di per sé alcuna conseguenza automatica, di integrale perdita degli assegni o, al contrario, di integrale spettanza. L’irripetibilità della retribuzione perduta durante la sospensione cautelare si giustifica unicamente nell’ipotesi in cui il procedimento disciplinare si concluda con il licenziamento del lavoratore. In caso di intervenuto decesso del lavoratore il procedimento disciplinare non è più possibile. La mancanza della prestazione lavorativa deve essere posta a carico del datore di lavoro che, sospeso il rapporto per un proprio interesse cautelativo, si assume il rischio della impossibilità di accertarne la legittimità con un procedimento disciplinare, come nel caso della intervenuta morte del lavoratore”.

Sentenza n. 15218 del 21/7/2015 – Sanzione disciplinare – Sospensione dal servizio e dalla retribuzione – Mancata affissione del codice disciplinare

Il Comune, datore di lavoro, ha proposto ricorso contro la sentenza della Corte territoriale la quale aveva dichiarato la illegittimità della sanzione disciplinare irrogata ad una dipendente che aveva disatteso una disposizione impartitale dal dirigente, in quanto l’Amministrazione aveva violato l’obbligo di affissione del codice disciplinare. A questo proposito gli Ermellini, nel respingere il ricorso del Comune chiariscono che: “Occorre premettere che la giurisprudenza di questa Corte, anche relativamente alle sanzioni disciplinari conservative – e non per le sole sanzioni espulsive – ha ritenuto che, in tutti i casi nei quali il comportamento sanzionato sia immediatamente percepibile dal lavoratore come illecito, perché contrario al c.d. minimo etico o a norme di rilevanza penale, non sia necessario provvedere alla affissione del codice disciplinare in quanto il lavoratore ben può rendersi conto, anche al di la di una analitica predeterminazione dei comportamenti vietati e delle relative sanzioni da parte del codice disciplinare, della illiceità della propria condotta (ex plurimis Cass. 27 gennaio 2011 n. 1926). Da quanto esposto emerge tuttavia che quando la condotta contestata al lavoratore

appaia violatrice non di generali obblighi di legge ma di puntuali regole comportamentali negozialmente previste e funzionali al miglior svolgimento del rapporto di lavoro (come nel caso di illeciti consistenti nella violazione di prescrizioni strettamente attinenti alla organizzazione aziendale) l’affissione si presenta necessaria.” Il caso qui descritto è relativo a fattispecie in cui era ancora applicabile la dizione dell’art.25 n. 10 del CCNL del 6 luglio 1995 per il personale degli enti locali, che prevedeva che al codice disciplinare dovesse essere data una particolare forma di pubblicità tassativa e non sostituibile con altre forme equipollenti di pubblicità. Attualmente, con rilevante modifica rispetto a quanto qui analizzato, l’art. 55 comma 2 del d.lgs. n. 165/2001, come modificato dal D.lgs.
n. 150/2009, stabilisce che “La pubblicazione sul sito istituzionale dell’amministrazione del codice disciplinare, … equivale a tutti gli effetti alla sua affissione all’ingresso della sede di lavoro”.

Sentenza n. 16354 del 4/8/2015 – Conferimento ad interim di incarico dirigenziale – Sospensione dal servizio a seguito di procedimento penale – Assoluzione – Richiesta di avere retribuito l’incarico dirigenziale e risarcimento del danno anche non patrimoniale subito a causa della sospensione – Rigetto del ricorso

L’attribuzione ad interim di un incarico dirigenziale non pone in capo al soggetto nessun diritto ma solo un interesse legittimo di diritto privato pari a quello degli altri aspiranti. Non si può equiparare la mera attribuzione ad interim di una data funzione al conferimento del relativo incarico dirigenziale.

Sentenza n. 16683 del 11/8/2015 – Tempestività della contestazione disciplinare – Settore privato -Principi validi anche per il pubblico

La Suprema Corte rigetta il ricorso promosso dalla Telecom Italia S.p.A. avverso la sentenza della Corte territoriale competente che riteneva illegittimo il licenziamento di una dipendente a causa della violazione del principio di immediatezza della contestazione. Gli Ermellini, nel ritenere corretta la decisione della Corte d’Appello dichiarano quanto segue: “Occorre premettere che il principio

di tempestività della contestazione disciplinare è stato descritto come pluridirezionale, nel senso che accanto alla fondamentale funzione di garantire il diritto di difesa del lavoratore, agevolato nell’addurre elementi di giustificazione a breve intervallo di tempo dalla infrazione, vi è quello di non perpetuare l’incertezza sulla sorte del rapporto, sicché esso non può essere pregiudicato neppure nel caso di fatti aventi rilievo penale (vedere in particolare nel caso del pubblico impiego: Cass. sez.Lavoro Sent. nn. 7951/2011 e 4932/2007). Costituisce però orientamento condiviso e consolidato di questa Corte quello secondo il quale il concetto di tempestività della contestazione deve essere inteso in senso relativo, potendo essere compatibile con un intervallo necessario, in relazione al caso concreto e alla complessità dell’organizzazione del datore di lavoro, per un adeguato accertamento e una precisa valutazione dei dati (cfr. ex multis: Cass.29480/2008 – 22066/2007 – 14113/2006 – 4453/2004). E’ pacifico poi che l’immediatezza debba essere valutata con riferimento al tempo in cui i fatti sono conosciuti dal datore di lavoro, e non a quello in cui essi sono avvenuti e che la conoscenza debba tradursi nella ragionevole configurabilità dei fatti oggetto dell’inadempimento, inteso nelle sue caratteristiche oggettive, nella sua gravità e nella sua addebitabilità al lavoratore (da ultimo in proposito: Cass. 4724/2014 – Cass. 7410/2010), ammettendosi anche che il datore di lavoro possa allo scopo procedere anche alle preliminari necessarie verifiche (Cass. Sez.Lavoro nn. 5546/2010 – 29480/2008).”

Sentenza n. 20733 del 14/10/2015 – D.lgs. n. 165/2001 art. 55 bis comma 4 – Computo del termine entro il quale deve concludersi il procedimento disciplinare – Principio di diritto

Un Comune datore di lavoro, ricorre contro la sentenza della Corte d’appello territoriale che aveva considerato tardiva la conclusione del procedimento disciplinare a seguito del quale il Comune aveva licenziato un suo dipendente, condannando conseguentemente l’amministrazione al pagamento di una indennità risarcitoria in favore del lavoratore per licenziamento illegittimo. L’amministrazione sostiene, nel suo ricorso, che i giudici dell’appello hanno erroneamente individuato il dies a quo per il computo del termine entro il quale

deve concludersi il procedimento disciplinare, in quello in cui qualsiasi ufficio dell’amministrazione – e non quello deputato ai procedimenti disciplinari secondo l’ordinamento della pubblica amministrazione medesima – abbia acquisito la notizia della condotta astrattamente sanzionabile. Gli Ermellini, iniziando l’esame del ricorso, chiariscono che in sostanza il tema decidendum riguarda l’interpretazione di una parte dell’art. 55 bis comma 4 del d.lgs. n. 165/2001. Si tratta in sostanza di stabilire se la norma, laddove parla di prima acquisizione della notizia di infrazione “anche se avvenuta da parte del responsabile della struttura in cui il dipendente lavora”, si riferisca alla acquisizione della notizia da parte di un qualsiasi ufficio della amministrazione o soltanto da parte dell’ufficio per i procedimenti disciplinari e/o del responsabile della struttura presso cui il dipendente lavora. Gli Ermellini ritengono corretta la seconda interpretazione e pertanto stabiliscono che il dies a quo dal quale inizia a decorrere il termine entro il quale deve concludersi il procedimento disciplinare coincide con quello in cui la notizia è pervenuta all’ufficio per i procedimenti disciplinari, o, se anteriore, con la data in cui la notizia medesima è pervenuta al responsabile della struttura presso la quale il dipendente lavora. Nel rimettere alla Corte d’Appello la causa, per una nuova pronuncia gli Ermellini dettano il seguente principio di diritto al quale la Corte territoriale dovrà uniformarsi: “In tema di procedimento disciplinare nel rapporto di pubblico impiego contrattualizzato, ai sensi del D.lgs. n. 165 del 2001, art.55 bis comma 4, secondo e terzo periodo, la data di prima acquisizione della notizia della infrazione – dalla quale decorre il termine entro il quale deve concludersi, a pena di decadenza della azione disciplinare, il relativo procedimento
– coincide con quella in cui la notizia è pervenuta all’ufficio per i procedimenti disciplinari o, se anteriore, con la data in cui la notizia medesima è pervenuta al responsabile della struttura in cui il dipendente lavora.”

Sentenza n. 4731 del 4/12/2015 – Camere di commercio – Procedimento disciplinare
– Organo competente – Principio di diritto

La Suprema Corte accoglie il ricorso, della dipendente di una Camera di Commercio avverso la sentenza della Corte territoriale che rigettava la domanda di nullità del licenziamento avanzata dalla lavoratrice in quanto la sanzione stata irrogata dalla Giunta della CCIAA, organo ritenuto dalla ricorrente incompetente ad irrogare sanzioni disciplinari. I giudici, dopo aver ricordato che le CCIAA rientrano tra le amministrazioni pubbliche, cassano la sentenza impugnata rinviandola alla Corte d’Appello che dovrà emettere una nuova decisione sulla base del seguente principio di diritto: “Anche le Camere di commercio, al pari delle altre amministrazioni pubbliche, devono individuare l’ufficio competente per i procedimenti disciplinari, in tal modo dovendosi coordinare la disciplina prevista dalla legge n. 580 del 1993, con il disposto generale di cui al D.lgs. n. 29 del 1993 art. 59 comma 4 poi trasfuso nell’art. 55 comma 4 d.lgs. n. 165/2001. Pertanto il procedimento disciplinare per l’irrogazione di un licenziamento, instaurato e gestito dalla Giunta camerale è illegittimo e la sanzione è affetta da nullità, risolvendosi in una violazione di norme di legge inderogabili sulla competenza, senza che possa portare ad un diverso risultato la L.580 del 1993, art. 14 comma 5 (nel testo antecedente le modifiche di cui al d.lgs. n. 23 del 2010, applicabile nella specie ratione temporis) trattandosi di norma di carattere recessivo rispetto alla stessa L. n.580/1993 art. 19 comma 1 la quale, con invio ricettizio, stabilisce che al personale delle Camere di commercio si applicano le disposizioni previste dal D.lgs. 3 febbraio 1993 n. 29”.

Sentenza n. 604 del 15/1/2016 – Licenziamento disciplinare – Violazione dei doveri di lealtà e correttezza – Applicazione dell’art. 55quater lett.d) d.lgs. 165/01

Un dipendente comunale ricorre contro il licenziamento senza preavviso intimatogli dal Comune presso cui lavorava per: dichiarazioni omissive, violazione dei doveri di lealtà e correttezza, presentazione di certificato falso. Il dipendente, all’atto della assunzione come ufficiale dei vigili urbani, aveva presentato un

certificato falso che attestava la mancanza di carichi pendenti mentre invece a suo carico risultava una condanna in via definitiva per furto e resistenza a pubblico ufficiale. Per la nomina ad ufficiale dei vigili urbani era invece necessario il requisito della incensurata condotta morale e civile e la inesistenza di condanne per delitti. Il ricorrente contesta l’applicazione, nel suo caso, del d.lgs. n. 165/01 sostenendo che si sarebbero invece dovute applicare le norme del Testo Unico Enti locali n. 267/2000, che a suo parere aveva carattere di specialità rispetto al decreto legislativo e pertanto di prevalenza. Già la Corte territoriale, rigettando l’appello del dipendente, negava la prevalenza del Testo unico per gli enti locali rispetto al decreto legislativo 165/01 sottolineando anzi che l’art. 88 dello stesso
t.u.e.l. rinvia al d.lgs. n. 29/1993 sul pubblico impiego e successive modifiche, tra le quali, quelle del d.lgs. n. 165/01. La Cassazione conferma quanto detto dai giudici dell’Appello, e respinge il ricorso.

Sentenza n. 1351 del 26/1/2016 – Falsa certificazione medica – Art. 55quater comma 1 lett.a) del d.lgs. n. 165/2001 – Licenziamento disciplinare senza preavviso – Giusta causa di licenziamento – Proporzionalità della sanzione

La ricorrente era stata licenziata dalla ASL presso la quale lavorava per aver falsificato un certificato medico di malattia. Entrambi i giudici del merito avevano respinto il suo ricorso contro il licenziamento. La lavoratrice si rivolge allora alla Suprema Corte lamentando che i giudici avrebbero falsamente applicato l’art. 2119 c.c., non avrebbero correttamente valutato riguardo alla proporzionalità della sanzione, e nulla avrebbero rilevato circa l’automatismo utilizzato dalla datrice di lavoro nell’applicare la massima sanzione. La Corte rigetta il ricorso in quanto, pur ribadendo l’illegittimità di qualsivoglia automatismo nella applicazione delle sanzioni disciplinari, nonché la necessità che vi sia proporzionalità tra i fatti commessi e la sanzione disciplinare comminata – con conseguente possibilità per il giudice di annullare la sanzione eccessiva -, ritiene tuttavia che la Corte del merito abbia sufficientemente motivato circa la sussistenza, nel caso esaminato, del dolo da parte della lavoratrice che ha volontariamente falsificato il suo certificato e quindi messo in atto un comportamento gravemente fraudolento, tale da minare

la fiducia dell’Amministrazione e rendere quindi proporzionata la sanzione inflittale. Per quanto riguarda poi la sussistenza della giusta causa di licenziamento, negata dalla ricorrente, dicono i giudici che è vero che l’art. 2119 c.c. configura una norma elastica, in quanto costituisce una disposizione di contenuto precettivo ampio e polivalente destinato ad essere progressivamente precisato, ma tuttavia nel caso esaminato la massima sanzione è già stata tipizzata dall’art. 55 quater del d.lgs. n. 165/2001 e comunque l’accertamento in concreto della giustificatezza del licenziamento costituisce apprezzamento di fatto, riservato al giudice di merito e non censurabile in sede di legittimità.

Sentenza n. 8245 del 26/4/2016 – Ufficio competente per i procedimenti disciplinari
– Art. 55bis comma 4 d.lgs n. 165/01 – Non è un collegio perfetto – Principi di diritto

L’art. 55bis comma 4 del D.lgs n. 165/01 si limita a stabilire che ciascuna amministrazione, secondo il proprio ordinamento, individui l’ufficio competente per i procedimenti disciplinari ai sensi del comma 1, secondo periodo. Il predetto ufficio contesta l’addebito al dipendente, lo convoca per il contraddittorio a sua difesa, istruisce e conclude il procedimento secondo quanto previsto nel comma 2. L’articolo nulla dice riguardo al fatto che il suddetto ufficio abbia, o debba avere, la natura di collegio perfetto, nel quale è sempre necessaria la partecipazione di tutti i componenti per la attività del collegio. Sulla base di questa considerazione gli Ermellini accolgono il ricorso promosso dal MIUR contro la sentenza della Corte territoriale d’Appello che aveva dichiarato la nullità del licenziamento disciplinare di un dipendente condannando il MIUR alla reintegra con risarcimento del danno. La Corte territoriale infatti aveva ritenuto che il collegio di cui all’art. 55bis comma 4 del d.lgs n. 165/01, fosse un collegio perfetto e pertanto potesse ascoltare il lavoratore e decidere sulla sanzione solamente con la presenza di tutti i suoi membri, cosa che non era avvenuta nel caso di specie. La Corte Suprema accoglie il ricorso delle Amministrazione, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello in altra composizione stabilendo i seguenti principi di diritto: a) tranne che in caso di organi giurisdizionali un collegio deve intendersi come perfetto solo

quando la legge, esplicitamente o implicitamente, lo disponga; b) in un collegio perfetto la presenza di tutti i suoi componenti è necessaria soltanto per le attività decisorie e non anche per quelle preparatorie, istruttorie o strumentali verificabili a posteriori dall’intero consesso; c)in nessun caso un collegio può operare in composizione monopersonale.

Sentenza n. 11594 del 6/6/2016 – Licenziamento disciplinare – Decorrenza dei termini del procedimento disciplinare

Nel licenziamento disciplinare nel pubblico impiego ai sensi dell’art. 55bis comma 4 periodi due e tre del d.lgs. n. 165/01, la data di prima acquisizione della notizia della infrazione da cui decorre il termine entro il quale deve concludersi – a pena di decadenza della azione disciplinare – il procedimento, coincide con quella in cui la notizia è pervenuta all’ufficio per i procedimenti disciplinari o, se anteriore, con la data in cui è pervenuta al responsabile della struttura in cui il dipendente lavora. Questo è quanto ha stabilito la Corte di Cassazione respingendo il primo motivo di ricorso del docente di una scuola statale licenziato per giusta causa a seguito di segnalazioni di gravi irregolarità nei comportamenti e nell’espletamento del servizio. Riguardo poi alla sottolineata tolleranza manifestata dalla amministrazione che, dice il ricorrente, aveva una conoscenza pregressa delle sue condotte, la Corte così osserva: “la mera tolleranza manifesta dal datore di lavoro in occasione di precedenti mancanze del lavoratore non vale a rendere legittimi i relativi comportamenti lesivi e non preclude al datore di lavoro di mutare atteggiamento in occasione di successive mancanze, né preclude che le mancanze precedenti possano essere comprese in una valutazione globale del comportamento del dipendente, quale indice rivelatore della idoneità del fatto per ultimo contestato a costituire giusta causa o giustificato motivo soggettivo di recesso”.

Sentenza n. 11636 del 7/6/2016 – Licenziamento disciplinare per falsità documentale e dichiarativa

La Corte respinge il ricorso di un docente con contratto a tempo determinato che era stato licenziato per false attestazioni e false dichiarazioni rilasciate al fine di ottenere l’instaurazione del rapporto di lavoro e, conseguentemente, era stato anche dichiarato decaduto dalle graduatorie ad esaurimento del personale docente per la scuola primaria. Nelle motivazioni della sentenza i giudici toccano alcuni importanti punti che si riportano di seguito: a) in tema di licenziamento disciplinare la preventiva contestazione dell’addebito al lavoratore incolpato deve riguardare, a pena di nullità del licenziamento stesso, anche la recidiva (o comunque precedenti disciplinari che la integrano) ove questa rappresenti elemento costitutivo della mancanza addebitata; b) in caso di falsità documentali o dichiarative, si applica l’art. 55quater lettera d) del d.lgs.n. 165/01, il quale prevede che il licenziamento senza preavviso è irrogato nei casi di “falsità dei documenti o dichiarative commesse ai fini o in occasione della instaurazione del rapporto di lavoro ovvero di progressioni di carriera” e ciò significa che il comportamento del dipendente pubblico è sanzionato comunque, indipendentemente dalla circostanza che la falsità abbia fatto conseguire il posto di lavoro, essendo sufficiente ad integrare la fattispecie, la condotta di avere prodotto la documentazione o la dichiarazione falsa, al fine o in occasione del rapporto di lavoro; c) la condotta di produrre documenti falsi ed eseguire false dichiarazioni è idonea in sé ad assumere caratteri tali da giustificare il licenziamento, indipendentemente che sia integrato un delitto di falso; d) per quanto riguarda poi la decadenza dalle graduatorie, i giudici ricordano la sentenza della Corte Costituzionale n. 329 del 2007 che afferma: “Il DPR n. 3 del 1957 art. 28 comma 2 persegue due obiettivi conformi alla Costituzione. Il primo è di vietare l’instaurazione di un rapporto di impiego con soggetti che abbiano agito in violazione del principio di lealtà che costituisce uno dei cardini dello stesso rapporto (art. 98 Cost.). Il secondo è di tutelare l’uguaglianza dei concorrenti pregiudicati dalla sleale competizione con chi abbia partecipato alla selezione con documenti falsi o viziati”.

Sentenza n. 11868 del 9/6/2016 – Licenziamento disciplinare – Applicazione al pubblico dipendente dell’art. 18 legge n. 300/1970 nella formulazione precedente alla modifica della L. 92/2012 – Immutabilità dei fatti posti a fondamento della sanzione disciplinare – rinnovo della contestazione – Principio di diritto

In primo luogo i giudici stabiliscono, con articolata motivazione, che, a differenza di quanto già stabilito dalla stessa Corte “fino al successivo intervento di armonizzazione non si estendono ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni le modifiche apportate all’art. 18 dello Statuto, con la conseguenza che la tutela da riconoscere ai detti dipendenti in caso di licenziamento illegittimo resta quella assicurata dalla previgente formulazione della norma”. Per quanto riguarda i fatti posti a fondamento della sanzione disciplinare e la loro immutabilità la Corte stabilisce che : “il principio della immutabilità dei fatti posti a fondamento della sanzione disciplinare è finalizzato, al pari di quello relativo alla necessaria specificità della contestazione, a garantire il diritto di difesa del lavoratore incolpato, diritto che sarebbe compromesso qualora si consentisse al datore di lavoro di intimare il licenziamento in relazione a condotte rispetto alle quali il dipendente non è stato messo in condizioni di discolparsi. …non si verifica una modifica della contestazione nel caso in cui la condotta contestata resti invariata e mutino solo l’apprezzamento e la valutazione della stessa, poiché in tal caso, ove non vengano in rilievo nuove circostanze di fatto, il diritto di difesa non risulta in alcun modo compromesso.” Gli Ermellini dettano poi i seguenti principi di diritto: a) il principio della immutabilità della contestazione non impedisce al datore di lavoro, nei casi di sospensione del procedimento disciplinare per la contestuale pendenza del processo penale relativo ai medesimi fatti, di utilizzare, all’atto della riattivazione del procedimento, gli accertamenti compiuti in sede penale per meglio circoscrivere l’addebito, ricompreso in quello originario, purché ciò avvenga nel rispetto del diritto di difesa, ossia ponendo il lavoratore in condizione di replicare alle accuse, così come precisate al momento della riattivazione; b) il principio della specificità della contestazione disciplinare non richiede l’osservanza di schemi prestabiliti e rigidi sicché è ammissibile la contestazione per relationem ogni qual volta i fatti e i comportamenti richiamati siano a conoscenza dell’interessato; c) ai rapporti di lavoro disciplinati dal d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165

art. 2, non si applicano le modifiche apportate dalla L. 28 giugno 2012 n. 92 alla
L.20 maggio 1970 n. 300 art. 18, per cui la tutela del dipendente pubblico in caso di licenziamento illegittimo intimato in data successiva alla entrata in vigore della richiamata L.n.92 del 2012 resta quella prevista dalla L. n. 300 del 1970 art. 18 nel testo antecedente la riforma.

Sentenza n. 11987 del 10/6/2016 – Licenziamento – Art. 24 comma 2 ccnl comparto ministeri del 16/5/1995 – Art. 25 commi 5 e 6 ccnl comparto ministeri del 1995 – Art. 12 ccnl comparto ministeri del 2005-2005 – Rapporti tra procedimento disciplinare e processo penale – Termine per l’instaurazione del procedimento disciplinare – Principio della immutabilità della contestazione

I giudici respingono il ricorso di un dipendente del Ministero del Lavoro e nelle motivazioni della sentenza forniscono chiarimenti riguardo alla interpretazione di norme contrattuali ormai superate in materia di termini del procedimento disciplinare che non verranno riportati, ed altri invece ancora attuali riportati di seguito: a) il principio applicabile a tutti i termini del procedimento disciplinare che decorrono dalla sentenza è che il dies a quo non può coincidere con conoscenze diverse da quella della “sentenza”, determinata dalla sua “comunicazione” (Cass, 25/11/2009 n. 24769); b) il principio della immutabilità della contestazione è violato solo qualora il licenziamento venga intimato in relazione a condotte diverse da quelle contestate, rispetto alle quali il dipendente non è stato messo in condizioni di difendersi. Nulla invece impedisce al datore di lavoro, che abbia contestato una pluralità di comportamenti ritenuti illeciti, di ritenere dimostrati, all’esito del procedimento disciplinare, solo alcuni dei fatti in origine contestati e di applicare ugualmente la sanzione espulsiva, ove le condotte provate siano di gravità tale da giustificarla.

Sentenza n. 11985 del 10/6/2016 – Licenziamento disciplinare – Nuovo art 55 bis comma 1 del d.lgs. n. 165/01 – Rapporto tra procedimento penale e disciplinare – Tempestività della azione disciplinare – Immediatezza della contestazione – Specificità della contestazione – Motivazione fatta per relationem

La Corte respinge il ricorso di un dirigente medico – che aveva proposto ricorso contro il licenziamento per giusta causa intimatogli dalla ASL presso cui lavorava a seguito di sentenza penale irrevocabile di condanna per vari reati – sulla base delle argomentazioni di seguito riportate. Il decreto legislativo n. 150/2009 all’art. 55 bis del d.lgs. n. 165/01 ha definitivamente soppresso la regola della pregiudizialità penale in favore di quella della autonomia del procedimento penale e di quello disciplinare, prevedendo che il procedimento disciplinare che abbia ad oggetto, in tutto o in parte, fatti in relazione ai quali procede l’autorità giudiziaria, è perseguito e concluso anche in pendenza del procedimento penale. La regola è quindi quella della autonomia. In base alla nuova disciplina la fase di avvio del procedimento disciplinare è regolata con riferimento al momento della acquisizione della notizia della infrazione da parte del responsabile della struttura ovvero dell’ufficio competente per i procedimenti disciplinari. Dal momento di tale acquisizione decorrono i termini per la contestazione dell’addebito all’incolpato, il procedimento, nella sua unitarietà si snoda a partire dall’acquisizione della notizia. Inoltre, in tema di procedimento penale a carico di pubblici dipendenti per fatti penalmente rilevanti, non è ipotizzabile la violazione del principio di immediatezza della contestazione e della adozione dl provvedimento disciplinare qualora la PA, uniformandosi alle disposizioni della contrattazione collettiva in caso di emergenza di fatti-reato, abbia atteso l’esito delle indagini e del processo destinando il dipendente ad altre mansioni e, in seguito avuta notizia in via ufficiale del rinvio a giudizio, abbia provveduto alla sospensione cautelare e, all’esito del processo penale, a nuova valutazione dei fatti ascritti al lavoratore, disponendone il licenziamento. Proseguono poi i giudici: “In tema di sanzioni disciplinari a carico di lavoratori subordinati, la contestazione dell’addebito ha lo scopo di consentire al lavoratore incolpato l’immediata difesa e deve, conseguentemente, rivestire il carattere della specificità, senza l’osservanza di schemi prestabiliti e rigidi, purché siano fornite al lavoratore le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare,

nella sua materialità, il fatto o i fatti addebitati. In tale contesto questa Corte ha ritenuto pienamente ammissibile la contestazione per relationem, mediante il richiamo agli atti del procedimento penale instaurato a carico del lavoratore, per fatti e comportamenti rilevanti anche ai fini disciplinari, ove le accuse formulate in sede penale siano a conoscenza dell’interessato, risultando rispettati, anche in tali ipotesi, i principi di correttezza e garanzia del contraddittorio. “

Sentenza n. 12108 del 13/6/2016 – Licenziamento disciplinare di un dirigente ASL – Ruolo del Comitato dei Garanti – Avvio del procedimento -Consultazione di documenti

La Corte non accoglie il ricorso del lavoratore avverso il licenziamento, respingendo i motivi addotti dal ricorrente in particolare con queste motivazioni:
a) in relazione al licenziamento dei dirigenti il parere del Comitato dei Garanti è previsto solo nelle ipotesi di responsabilità gestionale per il mancato raggiungimento degli obiettivi o per grave inosservanza delle direttive impartite, non nelle ipotesi di responsabilità disciplinare, salvo il caso in cui vi sia un indissolubile intreccio tra i due profili; b) La segnalazione inviata dal Direttore ammnistrativo non costituisce ancora avvio del procedimento. L’avvio del procedimento da parte dell’ufficio per i procedimenti disciplinari avviene come stabilisce l’art 55 comma 4 del d.lgs. n. 165/2001: contestazione dell’addebito – istruzione (avvio) del procedimento disciplinare – istruttoria – applicazione della sanzione; c) Il datore di lavoro è tenuto ad offrire all’incolpato documenti in consultazione solo in quanto e nei limiti in cui l’esame degli stessi sia necessario al fine di una contestazione dell’addebito idonea a permettere alla controparte una soddisfacente difesa.

Sentenza n. 14103 del 11/7/2016 – Interpretazione dei contratti collettivi – Licenziamento per giusta causa – Gravità dell’inadempimento – Proporzionalità della sanzione – Principi di diritto

Gli Ermellini accolgono il ricorso del dipendente di una Azienda Ospedaliera che era stato licenziato per aver prestato, reiteratamente, attività lavorativa presso aziende private senza autorizzazione. Nel suo ricorso il lavoratore aveva, tra le altre cose, lamentato la non corretta applicazione della disciplina dettata dalle parti collettive nell’art. 13 del ccnl 19 aprile 2004 per il personale del comparto sanità. La Corte, nelle motivazioni della sentenza, premette innanzi tutto che è ormai acquisito nella giurisprudenza di legittimità che, nelle controversie di lavoro dei dipendenti pubblici, ove sia proposto ricorso per Cassazione per violazione o falsa applicazione dei contratti e accordi collettivi nazionali di cui all’art. 40 del d.lgs. n. 165/01, ai sensi dell’art. 63 comma 5 del medesimo decreto legislativo, la Corte di Cassazione può procedere alla diretta interpretazione di siffatti contratti. Pertanto i giudici prendono in esame l’art. 13 del CCNL comparto sanità del 2004 che, secondo la Corte territoriale, prevedendo la sanzione espulsiva per le infrazioni di gravità tale da non consentire la prosecuzione del rapporto, sarebbe alla base della legittimità del licenziamento contestato dal lavoratore. A questo proposito, dicono gli Ermellini: “l’art. 13 del contratto collettivo nel tipizzare le condotte che giustificano il licenziamento disciplinare, con o senza preavviso, non prevede tra le diverse ipotesi la violazione della disciplina dettata dal D.lgs.n.165 del 2001 art, 53 (incompatibilità, cumulo di incarichi e impieghi) e attribuisce rilievo alla recidiva solo alle condizioni previste nel comma 7 lettere a) b) f) e g) nonché dalla lettera a) del comma 8. La disciplina contrattuale, inoltre, richiama il principio della gradualità e proporzionalità delle sanzioni e prevede che le stesse debbano essere inflitte tenendo conto: della intenzionalità del comportamento, della rilevanza degli obblighi violati, delle responsabilità connesse alla posizione di lavoro occupata dal dipendente, del grado di pericolo o di danno causato alla azienda o agli utenti del servizio, della sussistenza di circostanze aggravanti o attenuanti. Le parti collettive in tal modo hanno inteso recepire il consolidato orientamento di questa Corte secondo cui in tema di licenziamento per giusta causa ai fini della proporzionalità tra fatto e recesso, viene in considerazione ogni comportamento

che , per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la prosecuzione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali, dovendosi ritenere determinante, a tal fine, l’influenza che sul rapporto di lavoro sia in grado di esercitare il comportamento del lavoratore che, per le sue concrete modalità e per il contesto di riferimento, appaia suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento e denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti, conformando il proprio comportamento ai canoni di buona fede e correttezza.” (cfr tra le altre: Cass. 14586/2009; 17514/2010; 2013/2012; 13158/2015). Tutto questo non è stato tenuto presente dalla Corte territoriale quando ha dichiarato la legittimità del licenziamento intimato e pertanto la Cassazione cassa con rinvio la sentenza e indica i seguenti principi di diritto cui la Corte del rinvio dovrà uniformarsi: La gravità dell’inadempimento deve essere valutata nel rispetto della regola generale della non scarsa importanza di cui all’art. 1455 c.c., sicché l’irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata solamente in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali, tale cioè da non consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro per essersi irrimediabilmente incrinato il rapporto di fiducia in considerazione della realtà aziendale e delle mansioni svolte. Non è sufficiente, per ritenere giustificato un licenziamento, che una disposizione di legge sia stata violata dal lavoratore o che un obbligo contrattuale non sia stato dal medesimo adempiuto occorrendo pur sempre che tali violazioni siano di una certa rilevanza e presentino i caratteri in precedenza enunciati.

Sentenza n. 14640 del 18/7/2016 – Licenziamento per giusta causa – Commissione di atti o fatti dolosi che pur non costituendo illeciti di rilevanza penale, sono di gravità tale da non consentire la prosecuzione, neppure provvisoria, del rapporto di lavoro – Atti compiuti al di fuori della prestazione di lavoro – Onere della prova – Proporzionalità – Giusta causa di licenziamento

Il ricorrente, dipendente INPS, aveva rilasciato dichiarazioni false riguardo ad un terreno di sua proprietà per ottenere aiuti comunitari, aveva inoltre utilizzato lavoratori dipendenti per il lavoro del suddetto terreno senza aver redatto buste

paga etc. L’INPS, ritenendo che detti comportamenti fossero in contrasto sia con gli art. 1 comma1 e 2 commi 1 e 2 del Codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, allegato al regolamento di disciplina, sia con i doveri di lealtà ed esclusività, irrogava al lavoratore la sanzione del licenziamento disciplinare per giusta causa. Entrambi i giudici di merito avevano respinto il ricorso del lavoratore contro il licenziamento. Anche la Corte di Cassazione respinge il ricorso del dipendente e confermando la sentenza della Corte territoriale afferma, tra le altre cose: “l’onere della prova del fatto contestato al lavoratore, che spetta al datore di lavoro, deve riguardare la sussistenza di una grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro ed in particolare di quello fiduciario. Tuttavia non è necessario che la prova sia acquisita ad iniziativa o per il tramite del datore di lavoro, potendo il giudice porre a fondamento della decisione gli elementi di prova comunque ritualmente acquisiti nel processo, anche ad iniziativa di altre parti oppure d’ufficio”(es verbali ispettivi come nel caso esaminato). Inoltre, proseguono i giudici: “la giusta causa di licenziamento deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, dell’elemento fiduciario, dovendo il giudice valutare, da un lato la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e alla intensità del profilo intenzionale, dall’altro la proporzionalità tra tali fatti e la sanzione inflitta, per stabilire se la lesione dell’elemento fiduciario sul quale si basa la collaborazione del prestatore di lavoro, sia tale, in concreto, da giustificare la massima sanzione disciplinare. Ciò anche se la disciplina collettiva preveda un determinato comportamento come giusta causa o giustificato motivo di recesso. Quale comportamento che, per la sua gravità, è suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro, può assumere rilevanza disciplinare anche una condotta che, seppure compiuta al di fuori della prestazione lavorativa sia idonea, per le modalità concrete con cui essa si manifesta, ad arrecare un pregiudizio, non necessariamente di ordine economico, agli scopi aziendali”. Nella specie, dicono gli Ermellini, sussisteva la fattispecie della commissione in genere – anche nei confronti di terzi – di fatti o atti dolosi che pur non costituendo illeciti di rilevanza

penale, sono però di gravità tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro.

Sentenza n. 16637 del 8/8/2016 – Licenziamento disciplinare – Art. 55bis d.lgs.n. 165/2001 – Principi di diritto

La Cassazione accoglie il ricorso presentato dalla Corte dei Conti avverso la sentenza della Corte distrettuale che, confermando la decisione del giudice di primo grado, dichiarava a sua volta la illegittimità del licenziamento disciplinare senza preavviso comminato ad un dipendente per l’invio di una falsa certificazione medica. La Corte territoriale riteneva infatti che fosse stato violato il termine di 5 giorni – ritenuto dalla Corte perentorio – fissato dall’art. 55bis comma 3 del d.lgs. n. 165/01 per la trasmissione della relazione del responsabile della struttura di appartenenza del lavoratore, all’ufficio competente per il procedimento disciplinare (U.P.D.). Nelle motivazioni della sentenza gli Ermellini ribadiscono che: “Per gli illeciti disciplinari di maggiore gravità, imputabili al pubblico impiegato, come quelli che comportano il licenziamento, l’art. 55bis contiene due previsioni: con la prima (comma 3) è imposta al dirigente della struttura amministrativa in cui presta servizio l’impiegato la trasmissione degli atti all’ufficio disciplinare entro cinque giorni dalla notizia del fatto; con la seconda (comma 4) si prescrive all’ufficio disciplinare la contestazione dell’addebito al dipendente con l’applicazione di un termine pari al doppio di quello stabilito dal comma 2 (ossia 40 giorni). Lo stesso comma 4 dice che la violazione dei termini di cui al presente comma comporta per l’amministrazione la decadenza dal potere disciplinare. E’ evidente perciò che la decadenza sanziona soltanto l’inosservanza del termine oggetto della seconda previsione….la fase delineata dal comma 3 non costituisce ancora avvio del procedimento, come è confermato dalla distinzione operata dalla disposizione in esame, tra la “trasmissione”, atto interno non avente rilievo disciplinare vero e proprio, e la “contestazione”, costituente, invece, primo atto del procedimento disciplinare”. Pertanto i giudici, cassando con rinvio la sentenza della Corte territoriale, dettano i seguenti principi di diritto cui i giudici del rinvio

dovranno attenersi: ”In tema di illeciti disciplinari di maggiore gravità imputabili al pubblico impiegato, l’art. 55 bis comma 3 del d.lgs. n. 165 del 2001, nel disciplinare i tempi della contestazione, impone al dirigente della struttura amministrativa di trasmettere, entro cinque giorni dalla notizia del fatto, gli atti all’ufficio disciplinare e prescrive a quest’ultimo, a pena di decadenza, di contestare l’addebito entro cinque giorni dalla ricezione degli atti. Va escluso che l’inosservanza del primo termine, che assolve ad una funzione sollecitatoria, comporti, di per se, l’illegittimità della sanzione inflitta, assumendo rilievo la sua violazione solo allorchè la trasmissione degli atti venga ritardata in misura tale da rendere eccessivamente difficile l’esercizio del diritto di difesa o tardiva la contestazione dell’illecito”. “In tema di illeciti disciplinari di maggiore gravità imputabili al pubblico impiegato, la comunicazione all’interessato della trasmissione degli atti da parte del responsabile della struttura all’UPD, prevista dall’art. 55 bis comma 3 del d.lgs. n. 165 del 2001, ha una funzione meramente informativa, sicché gli effetti della eventuale omissione di tale adempimento non si riverberano sul procedimento disciplinare e sul suo svolgimento, che prosegue regolarmente”.

Sentenza n. 16900 del 10/8/2016 – Licenziamento disciplinare – Procedimento disciplinare e termini di inizio e fine – Art. 55 bis d.lgs. 165/01 – Tempestività della contestazione – Principi di diritto

I giudici rigettano il ricorso di un medico, dipendente di una Unità locale socio sanitaria, che era stato licenziato perché effettuava visite private durante l’orario di lavoro. Il lavoratore contestava il mancato rispetto, da parte della datrice di lavoro, dei termini previsti dall’art. 55bis del d.lgs. n. 165/01 per il procedimento disciplinare. Nelle motivazioni della sentenza i giudici affermano che, come già disposto nella sentenza n. 5637 del 2009: “il momento conclusivo del procedimento deve essere individuato nel momento in cui la parte datoriale esprime la propria valutazione ed esaurisce il proprio potere disciplinare mediante l’adozione della sanzione disciplinare, nel mentre la comunicazione all’interessato dell’atto sanzionatorio, per sua natura recettizio, inerisce all’efficacia dell’atto stesso (art.1334 c.c.) ma si colloca al di fuori del procedimento disciplinare, ormai

concluso, dovendosi distinguere tra conclusione del procedimento disciplinare (individuabile, come detto, nell’adozione della sanzione) e momento di perfezionamento ed acquisizione di efficacia della sanzione stessa, ricollegabile alla conoscenza della medesima da parte del destinatario. Di conseguenza deve ritenersi che l’effetto impeditivo della decadenza dell’azione disciplinare, prevista nel quarto comma dell’art. 55 bis, si produce con l’adozione dell’atto che da impulso all’azione disciplinare, a prescindere dalla sua successiva comunicazione al lavoratore. Secondo la previsione dell’art. 55 bis (nella sentenza per un refuso è scritto art. 52 bis) infatti, il momento in cui la contestazione è effettuata coincide con il momento in cui l’Amministrazione datrice di lavoro esprime la propria valutazione in ordine alla rilevanza ed alla consistenza disciplinare della notizia e la consolida nell’atto di contestazione, la cui comunicazione al lavoratore risulta, nel dettato della legge, estranea al potere dell’Amministrazione di adottare l’atto di contestazione entro il termine previsto, ed è stata collocata al di fuori della fase subprocedimentale che culmina, appunto, nella contestazione degli addebiti. La previsione che, entro il termine prefissato la pubblica amministrazione datrice di lavoro concluda la fase endoprocedimentale, provvedendo alla formulazione e contestazione degli addebiti, e che la successiva comunicazione di siffatta determinazione datoriale sia destinata unicamente a renderla produttiva nei confronti dell’interessato, per consentirgli di espletare il diritto di difesa nel modo e nei termini compiutamente descritti nel comma 2, è coerente con la ratio che sorregge l’intero art. 55bis”. Ratio che per gli Ermellini consiste nella esigenza di rendere più veloce l’esercizio del potere disciplinare. Per quanto riguarda poi l’eventuale ritardo nella ricezione della comunicazione da parte del lavoratore, questo non vulnera il suo diritto di difesa perché i termini per la sua difesa decorrono dal momento in cui la contestazione gli viene comunicata, e non interferisce neppure con la esigenza di celerità del procedimento disciplinare il quale resta assoggettato al termine di 120 giorni a decorrere dalla data della notizia dei fatti disciplinarmente rilevanti. Alla luce delle suddette considerazioni la Corte afferma i seguenti principi di diritto: “In tema di procedimento disciplinare nel rapporto di pubblico impiego contrattualizzato ai sensi dell’art. 55 bis comma 4 secondo e terzo periodo, d.lgs. n. 165/01, la data di prima acquisizione della notizia

di infrazione – dalla quale decorre il termine entro il quale deve concludersi, a pena di decadenza dell’azione disciplinare, il relativo procedimento – coincide con quella in cui la notizia è pervenuta all’ufficio per i procedimenti disciplinari o, se anteriore, con la data in cui la notizia medesima è pervenuta al responsabile della struttura in cui il dipendente lavora, la collegialità del UPD rilevando, infatti, non solo per i suoi provvedimenti, ma anche per le sue conoscenze, e pertanto restando irrilevante la conoscenza acquisita non dall’Ufficio in sè, sede dell’organo collegiale, ma dai suoi singoli componenti”. “In tema di procedimento disciplinare nel rapporto di pubblico impiego contrattualizzato, ai sensi dell’art. 55bis comma 4 d.lgs.n. 165/01, ai fini della decadenza dall’azione disciplinare occorre avere riguardo alla data in cui l’amministrazione datrice di lavoro esprime la propria valutazione in ordine alla rilevanza e consistenza disciplinare della notizia dei fatti rilevanti disciplinarmente e la consolida nell’atto di contestazione, assumendo rilievo l’eventuale ritardo nella comunicazione solo allorché detto ritardo sia di entità tale da rendere eccessivamente difficile l’esercizio del diritto di difesa”.

Sentenza n. 16903 del 10/8/2016 – Licenziamento disciplinare per giusta causa – Comunicazione del licenziamento: modalità – Art. 18 L. 300/1970: si applica ai dipendenti pubblici nel testo previgente le modifiche apportate da L. n. 92/2012 – Principi di diritto

Il ricorso viene presentato da una Azienda ospedaliera contro la sentenza del giudice territoriale che aveva accolto parzialmente la domanda di un dipendente della Azienda stessa il quale, essendo stato riconosciuto in via definitiva colpevole del delitto di cui all’art. 416bis c.p. (associazione mafiosa), aveva trascorso in carcere quattro anni ed era quindi stato licenziato per giusta causa dalla Azienda. Il dipendente affermava di non aver mai avuto comunicazione degli atti del procedimento disciplinare e del successivo licenziamento e chiedeva, pertanto, la reintegra nel posto di lavoro ed il ristoro economico spettante per il licenziamento illegittimo; chiedeva inoltre che fosse accertato il suo diritto a percepire, per il periodo della detenzione, il 50% della retribuzione fissa mensile e l’assegno per il nucleo familiare ai sensi dell’art. 48 comma 7 del CCNL Comparto università del

16/10/2008. L’Amministrazione si era difesa provando di avere invece inviato tutti gli atti presso l’ufficio del difensore che assisteva il lavoratore nel processo penale. I giudici della Corte territoriale avevano accolto in toto, a differenza del giudice di prime cure, la domanda del lavoratore, ritenendo che nel caso di specie vi fosse stato solo un licenziamento orale e che pertanto dovesse essere applicato l’art. 18 legge 300/1970 commi 1 e 2 e l’art. 48 del CCNL di comparto e conseguentemente dichiaravano l’inefficacia del recesso condannando la Azienda ospedaliera al reintegro del dipendente, alla corresponsione per tutto il periodo della reclusione del 50% della retribuzione, e all’assegno per il nucleo familiare. Contro tale sentenza ha proposto ricorso l’Amministrazione. Gli Ermellini iniziano l’esame dei motivi di ricorso sottolineando innanzi tutto l’errata interpretazione, da parte della Corte territoriale, dell’art. 2 legge 15 luglio 1966 n. 604. Dicono infatti i giudici: “La norma citata nel prescrivere che il datore di lavoro deve comunicare per iscritto il licenziamento al prestatore di lavoro, esige che lo scritto da utilizzare come strumento di comunicazione, non solo sia espressamente diretto all’interessato, ma sia anche a lui consegnato, poiché solo con la consegna, o con il rifiuto da parte del destinatario lo stesso, in quanto atto unilaterale recettizio, acquista efficacia ex art. 1334 c.c. Peraltro la giurisprudenza di questa Corte ha da tempo chiarito che la norma, oltre a non richiedere forme sacramentali per la manifestazione della volontà di recedere dal rapporto, non prescrive nulla in merito alle modalità della comunicazione, ed in particolare non esige né che l’atto debba essere necessariamente spedito a mezzo raccomandata al domicilio del prestatore né che la sua consegna debba essere documentata per iscritto, ben potendo la stessa essere provata anche a mezzo di testimoni. Ne discende che la spedizione dell’atto con il quale il licenziamento viene intimato in luogo diverso del domicilio del destinatario impedisce solo al datore di lavoro di avvalersi della presunzione di cui all’art. 1335c.c., ma non trasforma il recesso in atto orale, quando la volontà del datore sia stata chiaramente esternata nello scritto, né rende definitivamente inefficace il licenziamento che, al contrario, è produttivo di effetti dal momento in cui, sia pure con modalità diverse dalla ricezione nel proprio domicilio, il lavoratore venga in possesso dell’atto.” Per quanto riguarda poi l’applicazione dell’art. 18 della legge 300/1970 i giudici ricordano che già precedentemente: “questa Corte

ha affermato che ai rapporti di lavoro disciplinati dal d.lgs. 30/3/2001 n. 165 art. 2 non si applicano le modifiche apportate all’art. 18 della legge 20/5/1970 n. 300 dalla legge 28/6/2012 n. 92, per cui la tutela del dipendente pubblico, in caso di licenziamento illegittimo intimato in data successiva all’entrata in vigore della richiamata legge n. 92 del 2012, resta quella prevista dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970 nel testo antecedente alla riforma”. Alla luce di quanto sopra detto la Corte cassa la sentenza e la rinvia alla Corte territoriale che dovrà attenersi, nel giudicare, ai seguenti principi di diritto: “Il licenziamento, in quanto atto unilaterale recettizio, produce effetti dal momento in cui l’atto scritto giunge a conoscenza del destinatario e la comunicazione, a forma libera, può essere dimostrata in giudizio dal datore di lavoro, avvalendosi di ogni mezzo di prova.“ “Ai rapporti di lavoro disciplinati dal d.lgs. 30.3.2001 n. 165, art. 2, non si applicano le modifiche apportate dalla legge 28.6.2012 n.92 all’art. 18 della legge 20.5.1970 n. 300, sicché la tutela del dipendente pubblico in caso di licenziamento illegittimo intimato in data successiva alla entrata in vigore della richiamata legge n. 92 del 2012 resta quella prevista dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970 nel testo antecedente alla riforma.”

Sentenza n. 17245 del 22/8/2016 – Licenziamento disciplinare – art. 55bis del d.lgs.
n. 165/01 – Termini pre-procedimentali – Procedimentali – Endo-procedimentali

Il ricorrente si rivolge alla Suprema Corte per vedere riconosciuta la nullità del licenziamento disciplinare comminatogli dalla Amministrazione di cui era dipendente, la quale, a suo dire, avrebbe violato il termine a difesa previsto dall’art. 55bis comma 2 del d.lgs. n. 165/01, essendo trascorso un lasso di tempo inferiore a venti giorni tra la convocazione per essere ascoltato in sede di istruttoria procedimentale e la sua audizione. I giudici rigettano il ricorso e riguardo all’art. 55bis del d.lgs. n. 165/01 osservano quanto segue: “La disposizione normativa prevede i termini iniziali e finali del procedimento disciplinare (rispettivamente, a seconda della natura della sanzione, venti o quaranta per la contestazione e sessanta o venti per la chiusura), nonché termini pre-

procedimentali o endo-procedimentale costituiti, rispettivamente, dalla trasmissione degli atti all’ufficio disciplinare da parte del responsabile della struttura (comma 3 dell’art. 55) o dalla convocazione del dipendente per essere sentito a sua difesa (da comunicare con un preavviso di almeno dieci giorni, venti in caso di provvedimenti più gravi comma 2). I termini iniziali e finali che cadenzano il procedimento disciplinare rappresentano il limite per l’esercizio del potere disciplinare e alla loro violazione è chiaramente ricollegata la sanzione della decadenza. La violazione di questi termini si sostanzia nella preclusione irrimediabile dell’adozione del procedimento disciplinare. Il limite della tempestività del procedimento disciplinare (predeterminato dal legislatore mediante la previsione di determinati termini di inizio e fine della procedura) condiziona l’esercizio del potere (disciplinare del datore di lavoro ). Il termine che temporizza la fase endo-procedimentale risponde, invece, ad una ratio diversa essendo posto a garanzia del diritto di difesa del dipendente; ciò è reso evidente dalla possibilità, posta a favore del lavoratore (per gravi ed oggettivi impedimenti) di chiedere un rinvio del termine, proprio per consentire che tale lasso di tempo sia effettivamente utilizzabile dal lavoratore per approntare le sue giustificazioni. Deve ritenersi allora che la contrazione del termine di dieci (o venti) giorni determinerà la nullità della sanzione nella misura in cui venga rappresentato, dall’interessato, un pregiudizio sulla raccolta della documentazione e delle informazioni necessarie per far valere le sue ragioni innanzi al datore di lavoro. Trattandosi di termine posto a garanzia del diritto di difesa del lavoratore, la decadenza dall’esercizio del potere disciplinare opererà quando la contrazione del termine abbia determinato un nocumento al lavoratore stesso ed alle sue prerogative di difesa”. I giudici ricordano poi che la stessa Corte ha affermato la natura ordinatoria del termine pre-procedimentale di cui al comma 3 del d.lgs. n. 165/01, che ha natura sollecitatoria, conseguentemente la sanzione sarà illegittima solo se l’inoltro degli atti al dirigente venga ritardato in misura tale da rendere troppo difficile l’esercizio del diritto di difesa dell’incolpato. Nel caso esaminato il ricorrente non aveva lamentato nessun pregiudizio dalla contrazione del termine in quanto si era presentato alla convocazione con l’ausilio del proprio difensore, non aveva chiesto

alcun rinvio, aveva articolato compitamente le proprie difese. Pertanto il suo ricorso è da respingere.

Sentenza n. 17304 del 24/8/2016 – Licenziamento disciplinare per giusta causa – False dichiarazioni e attestazioni fornite alla amministrazione al fine della instaurazione del rapporto di lavoro – Art. 55 d.lgs. n. 165/01 – Automatismo delle sanzioni – Proporzionalità delle sanzioni – Giusta causa di licenziamento – Valutazione della giusta causa – Onere della prova della giusta causa – Principio di diritto

La Amministrazione ricorrente chiede alla Corte di cassare la sentenza della Corte territoriale che accoglieva l’appello del dipendente licenziato per avere prodotto falsa documentazione in un concorso per un posto di dirigente tecnico-ambientale. La Corte d’appello, pur avendo riconosciuto il rispetto, da parte della amministrazione, di tutti i termini stabiliti per il procedimento disciplinare, aveva tuttavia ritenuto mancante l’elemento della volontarietà della condotta addebitata al dipendente, ritenendo che questa fosse piuttosto improntata alla sola leggerezza e quindi inidonea a ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario. Contro questa decisione ricorre sia il Comune datore di lavoro, che, con ricorso incidentale il lavoratore il quale sostiene il mancato rispetto dei termini stabiliti dall’art. 55bis del d.lgs.n. 165/01. Gli Ermellini, respingono il ricorso incidentale sul mancato rispetto dei termini stabiliti per il procedimento disciplinare e affermano innanzi tutto il seguente principio di diritto: “In tema di procedimento disciplinare nel rapporto di pubblico impiego contrattualizzato, ai sensi dell’art. 55 bis comma 4, secondo e terzo periodo d.lgs.n. 165/01, la data di prima acquisizione della notizia della infrazione – dalla quale decorre il termine entro il quale deve concludersi , a pena di decadenza dell’azione disciplinare, il relativo procedimento – coincide con quella in cui la notizia è pervenuta all’ufficio procedimenti disciplinari o, se anteriore, con la data in cui la notizia medesima è pervenuta al responsabile della struttura in cui il dipendente lavora, restando irrilevante la conoscenza acquisita non dall’Ufficio in sé ma dai suoi componenti”. Proseguendo nell’esame dei motivi di ricorso i giudici ricordano poi come anche la Corte Costituzionale abbia stabilito che deve escludersi la configurabilità in astratto di qualsivoglia

automatismo nella irrogazione delle sanzioni disciplinari, soprattutto quando si tratta della sanzione del licenziamento. “ La proporzionalità della sanzione disciplinare rispetto ai fatti commessi è, infatti, regola valida per tutto il diritto punitivo (sanzioni penali, amministrative…etc) e risulta trasfusa, per l’illecito disciplinare nell’art. 2106 c.c., con conseguente possibilità per il giudice di annullamento della sanzione eccessiva, proprio per il divieto di automatismi sanzionatori, non essendo in definitiva possibile produrre, con legge o con contratto, sanzioni disciplinari automaticamente conseguenziali ad illeciti disciplinari. I principi sopra richiamati sono stati affermati anche con riguardo all’art. 55 quater da questa Corte che, nella decisione n. 1351 del 2016 ha rilevato che l’art. 2106 c.c. risulta oggetto di implicito richiamo da parte dell’art. 55 quater, comma 2, e che alla giusta causa ed al giustificato motivo fa riferimento il comma della medesima disposizione.” Riguardo poi alla giusta causa di licenziamento, l’art. 2119 c.c. configura una “norma elastica” il cui contenuto precettivo ampio, è destinato ad essere di volta in volta riempito e precisato, e rientra nel potere della Corte di Cassazione nell’ambito del giudizio di legittimità, verificare l’operazione valutativa compiuta dal giudice del merito sul comportamento del lavoratore che deve essere fatta con riguardo non solo al suo contenuto oggettivo “ ossia con riguardo alla natura e alla qualità del rapporto, al vincolo che esso comporta e al grado di affidamento che sia richiesto dalle mansioni espletate – ma anche nella sua portata soggettiva e, quindi, con riferimento alle particolari circostanze e condizioni in cui è stato posto in essere, ai modi, ai suoi effetti e all’intensità dell’elemento psicologico dell’agente”. Precisato tutto ciò i giudici, accogliendo il ricorso della Amministrazione dettano il seguente principio di diritto cui dovrà conformarsi nella sua decisione la Corte territoriale del rinvio: “ Nei casi in cui è contestata la condotta prevista dall’art. 55quater c. 1 lett.d) del d.lgs 165/2001 (falsità documentali o dichiarative commesse ai fini o in occasione dell’instaurazione del rapporto di lavoro ovvero di progressioni di carriera) il datore di lavoro, su cui a norma dell’art. 5 della legge n. 604 del 1966 grava l’onere della prova della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento, può limitarsi a provare, nel caso in cui la giusta causa sia costituita da falsità dichiarative commesse ai fini o in occasione dell’instaurazione del rapporto di lavoro, ovvero di

progressioni di carriera, e, in particolare, da false attestazioni circa il possesso dei requisiti di ammissione al concorso e poi di assunzione, nella loro valenza di inadempimento sanzionabile sul piano disciplinare, la falsità delle affermazioni e delle dichiarazioni nella loro oggettività. Grava invece sul lavoratore l’onere di provare gli elementi che possono giustificare la falsa attestazione, e la sua dipendenza da causa a lui non imputabile, essendo soltanto l’autore delle false dichiarazioni, in grado di provare che la sua condotta è stata il frutto di un incolpevole errore circa il contenuto e la veridicità delle sue dichiarazioni”.

Sentenza n. 17307 del 24/8/2016 – Licenziamento disciplinare – Inizio procedimento disciplinare ed irrogazione della sanzione dopo le dimissioni del dipendente – Sopravvivenza del potere disciplinare della PA – Effetti giuridici non preclusi dalla cessazione del rapporto di lavoro – Art. 55 bis comma 9 d.lgs. n. 165/01 – Principio di diritto

Il Ministero dell’Economia ricorre contro le sentenze dei giudici del merito che avevano dichiarato la illegittimità del licenziamento disciplinare intimato ad un dipendente il quale si era dimesso in epoca antecedente l’avvio del procedimento disciplinare. I giudici infatti avevano ritenuto che la disposizione dell’art. 55bis comma 9 del d.lgs. n. 165/01 fosse applicabile ai soli procedimenti già pendenti al momento della risoluzione del rapporto di lavoro. Gli Ermellini accolgono il ricorso del Ministero riguardo alla sopravvivenza del potere disciplinare della P.A. nelle ipotesi di cessazione del rapporto di lavoro sostenendo che il legislatore “ nel riformare il procedimento disciplinare attraverso la riduzione degli ambiti di intervento della contrattazione collettiva, ha previsto al comma 9 dell’art. 55 bis del d.lgs. n. 165 del 2001 che : – in caso di dimissioni del dipendente, se per l’infrazione commessa è prevista la sanzione del licenziamento o se comunque è stata disposta la sospensione cautelare dal servizio, il procedimento disciplinare ha ugualmente corso secondo le disposizioni del presente articolo e le determinazioni conclusive sono assunte ai fini degli effetti giuridici non preclusi dalla cessazione del rapporto di lavoro -. La disposizione è chiara nell’affermare la permanenza del potere disciplinare in capo alla Pubblica Amministrazione non solo nella ipotesi in

cui la pregressa sospensione cautelare del dipendente renda necessaria la regolazione degli effetti economici connessi alla sospensione e, quindi, l’accertamento sulla sussistenza dell’illecito che aveva dato causa alla sospensione medesima. Il legislatore ha voluto infatti che nei casi di comportamenti di gravità tali da giustificare il licenziamento, la sanzione debba comunque essere inflitta, a prescindere dalla attualità del rapporto di lavoro ai fini degli effetti giuridici non preclusi dalla cessazione. L’interesse che sorregge la norma quindi va ricercato nella necessità di accertare se sussista o meno la possibilità disciplinare per impedire, in caso di accertamento positivo, che il dipendente dimessosi possa essere riammesso in servizio, possa partecipare a successivi concorsi pubblici, possa far valere il rapporto di impiego come titolo per il conferimento di incarichi da parte della PA”. E questo a tutela dei principi di legalità, buon andamento e imparzialità che sussistono in eguale misura sia nella ipotesi in cui il dipendente si dimetta a procedimento disciplinare già avviato, sia qualora le dimissioni siano antecedenti all’esercizio della azione disciplinare. Quindi i giudici accolgono il ricorso, cassano la sentenza con rinvio alla Corte d’Appello competente la quale, nel decidere, dovrà uniformarsi la seguente principio di diritto: “l’art. 55bis comma 9, del d.lgs. n. 165 del 2001 prevede che nelle ipotesi di sospensione cautelare dal servizio e di infrazione disciplinare di natura e gravità tale da giustificare il licenziamento, l’azione disciplinare nei confronti del dipendente dimessosi debba essere iniziata e/o proseguita, nel rispetto dei termini di cui allo stesso art. 55 bis, non rilevando che le dimissioni siano intervenute in epoca antecedente l’avvio del procedimento”.

Sentenza n. 18404 del 20/9/2016 – Licenziamento disciplinare per giusta causa – Invio di mail dal contenuto diffamatorio – Rapporto di proporzionalità tra infrazione e sanzione

La causa riguarda il dipendente di una azienda privata ma le osservazioni dei giudici della Cassazione sono applicabili anche nel rapporto di lavoro pubblico. Il lavoratore era stato licenziato per avere inviato a numerosi dipendenti alcune mail con carattere diffamatorio nei confronti di due dirigenti. Il dipendente propone ricorso contro la sentenza della Corte d’appello che confermando la sentenza del

giudice di prime cure, aveva respinto la sua impugnativa del licenziamento disciplinare, ritenendo che il fatto oggetto di contestazione disciplinare costituisse giusta causa di licenziamento e fosse di gravità tale da ledere in modo irreversibile il rapporto di fiducia che deve essere alla base di ogni rapporto di lavoro. Anche gli Ermellini respingono il ricorso del lavoratore e per quanto riguarda in particolare la giusta causa di licenziamento, contestata dal lavoratore, ritengono corretto l’inquadramento del fatto contestato all’interno della giusta causa in quanto integrante una diffamazione nei confronti dei superiori del ricorrente. Anche la valutazione sulla irrimediabile lesione del vincolo fiduciario tra le parti è stata fatta correttamente ed è stata adeguatamente motivata in ragione del coefficiente doloso e delle modalità usate (scritto anonimo e creazione di un falso mittente) per diffondere il messaggio di posta elettronica giudicato diffamatorio.

Sentenza n. 18507 del 21/9/2016 – Licenziamento disciplinare per simulazione dello stato di malattia – Principio di diritto

La causa riguarda il dipendente di una azienda privata ma le disposizioni del giudici della Suprema Corte sono valide anche per il lavoro pubblico. Il lavoratore era stato licenziato dalla società datrice di lavoro perché scoperto, durante il periodo di malattia, a fare attività incompatibili con le affezioni da lui denunciate. Il lavoratore ricorre alla Corte di Cassazione chiedendo che sia dichiarata la illegittimità del licenziamento nonché la illegittimità del ricorso, da parte della datrice di lavoro, ad una agenzia investigativa privata. A proposito di questa ultima doglianza gli Ermellini ricordano il seguente principio di diritto cui si era attenuta la Corte d’Appello nella sua decisione: “Le disposizioni dell’art. 5 della legge 20 maggio 1970 n. 300 in materia di divieto di accertamenti da parte del datore di lavoro sulle infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente e sulla facoltà dello stesso datore di lavoro di effettuare il controllo delle assenze per infermità solo attraverso i servizi ispettivi degli istituti previdenziali competenti, non precludono al datore medesimo di procedere, al di fuori delle verifiche di tipo sanitario, ad accertamenti di circostanze di fatto atte a dimostrare l’insussistenza

della malattia o la non idoneità di questa ultima a determinare uno stato di incapacità lavorativa, e quindi a giustificare l’assenza”. Sono di conseguenza legittimi gli accertamenti che il datore di lavoro affida ad una agenzia investigativa ed aventi ad oggetto comportamenti extra-lavorativi che assumano rilievo sotto il profilo del corretto adempimento delle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro (Cass. n. 6236 del 2001 e 25162 del 2014). Quanto poi allo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente per malattia la Corte ricorda il costante orientamento della giurisprudenza in base al quale: “ lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente per malattia può giustificare il recesso del datore di lavoro, in relazione alla violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, oltre che nell’ipotesi in cui tale attività esterna sia di per sé sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, dimostrando quindi una fraudolenta simulazione, anche nel caso in cui la medesima attività, valutata con giudizio ex ante in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione ed il rientro in servizio, con conseguente irrilevanza della tempestiva ripresa del lavoro alla scadenza del periodo di malattia”. Il ricorso del lavoratore è quindi stato respinto.

Sentenza n. 18858 del 26/9/2016 – Licenziamento disciplinare – Giusta causa – Malattia del lavoratore -Ritardata comunicazione – Art. 55quater comma 1 lett. b) e 55septies d.lgs. n. 165/01 – Proporzionalità – Illegittimità del licenziamento

I giudici della Suprema Corte accolgono il ricorso di una lavoratrice che, assentatasi dal lavoro per 7 giorni a causa di una malattia, pur avendo avvertito il datore di lavoro della sua assenza, non aveva però attivato la procedura per l’inoltro, da parte dell’INPS, della certificazione medica al datore di lavoro. Poco tempo dopo la comunicazione della lavoratrice era intervenuta la visita del medico fiscale il quale aveva constatato l’effettiva esistenza della malattia ma Il datore di lavoro aveva comunque attivato la procedura disciplinare e applicata la sanzione del licenziamento. Contro tale decisione ricorre la lavoratrice lamentando il fatto che i giudici del merito, confermando la legittimità della sanzione, non avevano

verificato in concreto la gravità oggettiva e soggettiva della sua condotta, avendo lei comunque comunicato la sua assenza per malattia ed essendosi resa disponibile subito per la visita fiscale. La Corte respinge come non fondato il primo motivo di ricorso sulla violazione o falsa applicazione degli artt. 55quater comma 1 lett. b) e 55septies del d.lgs. n. 165/01 per aver ritenuto i giudici del merito che i certificati dei medici fiscali non rappresentassero valida giustificazione della assenza per malattia della ricorrente. Dicono infatti i giudici che: “non è sufficiente che il lavoratore informi il datore di lavoro della assenza per malattia, ma il lavoratore deve attivare, rivolgendosi per l’accertamento del proprio stato di salute/malattia ad una struttura sanitaria pubblica o ad un medico convenzionato con il Servizio sanitario nazionale, il procedimento di cui all’art. 55septies commi 1 e 2, che si conclude con l’inoltro e la ricezione della certificazione medica al datore di lavoro da parte dell’INPS. Ed è alla mancanza di tale certificazione che l’art. 55septies comma 1 lett. b) riconduce il licenziamento senza preavviso. Su un piano diverso si pone, dunque, la visita fiscale, che nella ratio della legge n. 150 del 2009 non è alternativa alla certificazione rilasciata dalla struttura sanitaria pubblica o da un medico convenzionato con il Servizio sanitario nazionale, a cui deve rivolgersi il lavoratore.” I giudici accolgono invece il secondo motivo di ricorso con quale la lavoratrice si duole del fatto che il giudice di merito aveva ritenuto di non poter sindacare sulla proporzionalità del licenziamento inflitto per il fatto contestato. A questo proposito gli Ermellini ricordano di avere più volte affermato che deve escludersi qualsivoglia automatismo nell’irrogazione delle sanzioni disciplinari, in particolare laddove si tratti della sanzione massima del licenziamento. Dicono i giudici: “Questa Corte, inoltre, ha affermato che la giusta causa di licenziamento deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare dell’elemento fiduciario, dovendo il giudice valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva degli medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all’intensità del profilo intenzionale, dall’altro, la proporzionalità tra tali fatti e la sanzione inflitta, per stabilire se la lesione dell’elemento fiduciario, su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro, sia tale, in concreto, da giustificare la massima sanzione disciplinare; quale evento che non consente la

prosecuzione anche provvisoria del rapporto, la giusta causa di licenziamento integra una clausola generale, che richiede di essere concretizzata dall’interprete tramite valorizzazione dei fattori esterni relativi alla coscienza generale e dei principi tacitamente richiamati dalla norma.” In sostanza il giudice deve sempre fare una valutazione sulla proporzionalità della sanzione rispetto ai fatti addebitati, valutando a tal fine la gravità oggettiva e soggettiva degli stessi, l’intenzionalità e le circostanze nelle quali sono stati commessi. Nel caso presente invece la Corte territoriale non aveva ritenuto di vagliare la proporzionalità – alla luce delle circostanze concrete in base alla quali la malattia era risultata effettivamente esistente – tra il fatto e la sanzione comminata e pertanto non aveva applicato i principi giurisprudenziali sopra riportati. Per questo motivo i giudici, accogliendo il ricorso, cassano la sentenza rinviandola alla Corte d’appello competente per una nuova pronuncia.

Sentenza n. 22550 del 7/11/2016 – Rifiuto di sottoporsi a visita medica – Licenziamento disciplinare – Ricorso per mancata comunicazione al dipendente della trasmissione degli atti all’UPD – Art. 55 bis comma 3 d.lgs. n. 165/2001 – Principi di diritto

La Corte respinge il ricorso del dipendente licenziato per essersi rifiutato di sottoporsi a visita medica. Il lavoratore aveva fatto ricorso alla Corte di Cassazione lamentando, in particolare, di non aver avuto comunicazione da parte del datore di lavoro dell’avvenuta trasmissione degli atti all’Ufficio scolastico regionale, per l’inizio del procedimento disciplinare. Gli Ermellini, respingendo il ricorso dettano il seguente principio di diritto: “In tema di illeciti disciplinari di maggiore gravità imputabili al pubblico dipendente, la comunicazione all’interessato della trasmissione degli atti da parte del responsabile della struttura all’UPD, prevista dal D.lgs. n. 165 del 2001, art 55bis comma 3, ha una funzione meramente informativa, sicché gli effetti dell’eventuale omissione di tale adempimento non si riverberano sul procedimento disciplinare e sul suo svolgimento, che prosegue regolarmente”. In relazione poi alla specifica fattispecie esaminata i giudici stabiliscono il seguente principio di diritto: “Nel pubblico impiego contrattualizzato

la risoluzione del rapporto di lavoro – a seguito del procedimento di cui all’art. 55bis del d.lgs. n.165del 2001 – nel caso di ingiustificato rifiuto, da parte del dipendente pubblico, di sottoporsi alla visita medica di idoneità, reiterato per almeno due volte, di cui al combinato disposto dell’art. 55octies lett. d) del d.lgs. n. 165 del 2001 con l’art. 6 del D.P.R. n. 171 del 2011, costituisce una autonoma ipotesi di licenziamento disciplinare, finalizzata ad assicurare il rispetto delle altre norme dettate dall’art. 55octies cit., sempre tutelando il diritto di difesa del dipendente”.

Sentenza n. 25750 del 14/12/2016 – Pubblico impiego-Assenza ingiustificata durante l’orario di lavoro – Licenziamento – Legittimità

La Corte accoglie il ricorso dell’INPS contro le sentenze dei giudici di merito che avevano dichiarato l’illegittimità del licenziamento di un lavoratore che si era assentato durante l’orario di lavoro senza segnalare la propria uscita e senza richiedere la prescritta autorizzazione, ritenendo che la prescrizione dell’art. 55 quater comma 1 lett. a) del d.lgs. n. 165/01 (nel testo antecedente alla modifica introdotta dal d.lgs. n.116/2016, applicabile ratione temporis) fosse applicabile solo nel caso in cui il lavoratore facesse timbrare il suo cartellino da altri colleghi. Accogliendo il ricorso della amministrazione i giudici della Suprema Corte dettano i seguenti importanti principi di diritto: “Ai sensi dell’art. 55 quater c. 1 lett. a) del d.lgs. n. 165 del 2001 la registrazione effettuata attraverso l’utilizzo del sistema di rilevazione della presenza sul luogo di lavoro è corretta e non falsa solo se nell’intervallo compreso tra le timbrature in entrata ed in uscita il lavoratore è effettivamente presente in ufficio, mentre è falsa e fraudolentemente attestata nei casi in cui miri a far emergere, in contrasto con il vero, che il lavoratore è presente in ufficio dal momento della timbratura in entrata a quello della timbratura in uscita.” “La fattispecie disciplinare di cui all’art. 55 quater c. 1 lett. a) del d.lgs. n. 165 del 2001 si realizza non solo nel caso di alterazione/manomissione del sistema, ma in tutti i casi in cui la timbratura, o altro sistema di registrazione della presenza in ufficio, miri a far risultare falsamente che il lavoratore è rimasto in ufficio

durante l’intervallo temporale compreso tra le timbrature/registrazioni in entrata ed in uscita”.

2022-06-02T19:17:23+02:00
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