Ricorso per il riconoscimento del Mobbing
Il fenomeno delle vessazioni, anche psicologiche e morali, nei luoghi di lavoro è stato oggetto negli ultimi anni di approfondite analisi e studi, oltre che a un autentico boom di cause contro le aziende. È il mobbing, ossia quella strategia per cui i colleghi e/o il datore di lavoro sottopongono la vittima designata a vessazioni e aggressioni di ogni tipo, con la finalità più o meno velata di indurlo ad andarsene dall’azienda. Un tema principale del diritto del lavoro. La stessa giurisprudenza (Cassazione, n. 13400/2007) affrontò il problema per la prima volta, definendolo come una successione di fatti e comportamenti, condotti con frequenza ripetitiva, posti in essere sul posto di lavoro, con l’unico scopo di recare danno al lavoratore, rendendone penosa la prestazione. L’elaborazione giurisprudenziale, nel corso degli anni, ne ha individuato varie tipologie. La più frequente è sicuramente quella del mobbing verticale, che si verifica quando la violenza psicologica è esercitata da un superiore gerarchico; diversamente, se l’azione discriminatoria è attuata da colleghi di lavoro si ha mobbing orizzontale.
La stessa giurisprudenza ha altresì identificato minuziosamente i tratti distintivi che integrano il reato di mobbing.
In prima luogo, l’emarginazione che, per il dirigente si manifesta nella forma, più sottile ma particolarmente grave, dell’esclusione dai flussi informativi strategici e gestionali, oltre che gerarchici, che lo priva progressivamente della conoscenza di quel che succede in azienda, svuotando di contenuto i suoi poteri direttivi. Poi, la dequalificazione professionale che è il più classico metodo di vessazione di matrice datoriale e che spesso si sostanzia nell’assegnazione di incarichi meno importanti e/o frustranti, a cui si accompagna la privazione di status e/o credibilità o, comunque, dei vantaggi, connessi alla posizione perduta. Infine, le accuse e le sanzioni immotivate, anche queste, spesso formulate dal datore di lavoro davanti ai colleghi o a terzi (clienti e/o fornitori importanti), finalizzate a svilire sempre più la percezione del contributo produttivo della vittima.
Di particolare interesse due recenti pronunce della Suprema Corte in tema di difesa dal mobbing
Con la sentenza n. 10285/ 2018, la Corte si è soffermata sul caso di un responsabile del servizio di polizia amministrativa, che era stato privato dal datore sia degli uomini, che dei mezzi necessari a svolgere il suo lavoro. Tale dipendente privato non era stato altresì consultato sulla riorganizzazione del suo corpo di polizia. Egli quindi era stato mortificato e isolato, e tale situazione gli aveva provocato una sofferenza psichica tale da cadere ammalato. I giudici di Piazza Cavour ha chiarito innanzitutto che il mobbing si concretizza attraverso molteplici forme. La mortificazione può consistere non solo in offese, in un’emarginazione del soggetto anche attraverso l’espletamento di compiti dequalificanti, ma anche nella privazione dei poteri gestori e gerarchici. Nel caso di specie, l’impossibilità di poter espletare i propri compiti ha determinato una lesione sul piano professionale-personale così che è stata accolta la sua domanda di risarcimento del danno.
La sentenza n. 18717/2018
Ancora la Cassazione, con la sentenza n. 18717/2018, ha affrontato il caso on cui le offese, i dispetti e umiliazioni non vengono posti in essere dal datore, ma dal collega di lavoro. Si parla in tali ipotesi di mobbing orizzontale laddove il dipendente “di pari grado” decide di prendere di mira un altro collega umiliandolo, deridendolo isolandolo (il lavoratore aveva criticato il collega e la propria azienda con un post pubblico su Facebook). La Corte di Cassazione ha suggerito che ci sono vari modi per difendersi e quindi per agire legalmente. In primis, è possibile riferire tali offese al datore di lavoro (esibizione delle email ingiuriose, registrazione vocale delle minacce subite). Il datore di lavoro essendo responsabile per la salute psicofisica di tutti i dipendenti può optare per l’adozione di misure punitive ( es. sospensione per alcuni giorni) o per il licenziamento, se ad esempio lo stesso lede l’immagine della propria azienda. Qualora poi le offese, i dispetti, le mortificazioni recano con sé l’elemento della continuità è possibile anche agire contro il collega attraverso una causa di mobbing, per ottenere il risarcimento del danno e il licenziamento dello stesso. Gli Ermellini continuano dicendo che se la vittima è costretta a cambiare le proprie abitudini quotidiane, proprio per via della situazione di costante ansia e paura verso il collega molesto che pone in essere vessazioni e umiliazioni continue, creando altresì un danno per la salute della vittima, ecco che può scattare anche una denuncia penale per stalking.
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