CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 08 settembre 2020, n. 18661
Pagamento delle retribuzioni corrispondenti alla qualifica rivestita – – Termine di prescrizione decennale
Fatti di causa
Con ricorso ex art.414 c.p.c. introduttivo del giudizio n. r.g. 42293/2009 E.S. conveniva la C. s.p.a. innanzi al Tribunale di Roma ed esponeva che con sentenza n.14231 del 16/3/1995, il Pretore di Roma aveva accertato il suo diritto ad essere assunto con decorrenza 1/1/1990 e condannato l’azienda al pagamento di tutte le retribuzioni corrispondenti alla qualifica rivestita. Sulla scorta di tali premesse, chiedeva la condanna della società al risarcimento del danno per omessa contribuzione relativa al periodo 1/1/1990 – 16/1/1995, nonché l’accantonamento dell’importo di euro 5.505,80 da includersi nella base di calcolo del t.f.r..
La convenuta resisteva al ricorso chiedendone la reiezione. Il Giudice adito respingeva le domande attoree, con pronuncia integralmente riformata dalla Corte distrettuale che, con sentenza resa pubblica il 4/6/2015, accoglieva il ricorso del lavoratore.
A fondamento del decisum ed in estrema sintesi, per quanto ancora qui rileva, il giudice del gravame osservava che la responsabilità del datore di lavoro per danni risentiti dal lavoratore in ragione della mancata o irregolare contribuzione, rappresentava un’ipotesi di responsabilità contrattuale derivante da una specifica ed indisponibile obbligazione imposta dalla legge, alla quale era applicabile il termine di prescrizione decennale di cui all’art.2946 c.c.. Considerato che il primo atto interruttivo della prescrizione – integrato dal tentativo di conciliazione – risaliva al 7/10/1999, il diritto concernente il periodo 1990-1995 doveva ritenersi azionato entro i termini di legge, e ciò anche ove si fosse ritenuto applicabile il termine di prescrizione quinquennale. Riteneva, poi, non condivisibile la sentenza impugnata, laddove aveva escluso la sussistenza dell’obbligazione contributiva sul rilievo della asserita natura risarcitoria delle somme corrisposte al S. a seguito della ritardata assunzione, osservando che nella fattispecie le somme dovute al lavoratore erano costituite dalle retribuzioni non corrisposte e che il diritto vantato discendeva dalla violazione dell’obbligo contrattuale di assunzione del lavoratore, sicché, non essendo venuta meno la natura originaria retributiva dell’obbligazione, gli importi andavano assoggettati a contribuzione.
Avverso tale decisione la società interpone ricorso per cassazione affidato a quattro motivi ai quali resiste il S. con controricorso, illustrato da memoria.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo è denunciata violazione e falsa applicazione degli artt.2948 e 2946 c.c. ex art.360 nn.3,4 e 5.
Si deduce che il rapporto di lavoro intercorso fra le parti, una volta assunto con contratto di lavoro a tempo indeterminato, era stato assoggettato a tutela reale, sicché allo stesso doveva ritenersi applicabile il termine di prescrizione quinquennale. Viene inoltre rimarcato che il giudice del gravame aveva erroneamente indicato quale data della proposizione del tentativo di conciliazione il 7/10/1999 invece del 7/10/2009; di conseguenza tra il 18 aprile 1994 – data di pubblicazione della sentenza pretorile di accertamento del diritto alla assunzione del S. – e il 7 ottobre 2009 – atto introduttivo del presente giudizio – era trascorso un lasso temporale superiore al decennio.
Inoltre, la sentenza del pretore era dotata di efficacia costitutiva, sicché non poteva che avere effetto dalla data della sua pubblicazione, risalente al 18 aprile 1994, e non già da epoca anteriore, cui era stato invece fatto risalire il dies a quo del rapporto di lavoro (1990). Conseguentemente, non si era determinato alcun inadempimento da parte dell’azienda per il periodo anteriore alla data di assunzione effettiva (1995).
2. Il secondo motivo prospetta violazione e falsa applicazione degli artt.2948 e 2946 c.c. nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione ex art. 360 nn. 3, 4 e 5.
Si ribadisce che la Corte di merito aveva erroneamente individuato la data del primo atto interruttivo nel 7 ottobre 1999, anziché in quella del 7 ottobre 2009, data effettiva della richiesta del tentativo obbligatorio di conciliazione, come esattamente indicato dallo stesso attore nel proprio ricorso introduttivo del giudizio; si osserva peraltro che, anche laddove vi fosse stata una richiesta di conciliazione del 7 ottobre 1999, tra detta data e quella di deposito del ricorso introduttivo del giudizio, avvenuto il 18 dicembre 2009, era trascorso un periodo superiore al termine decennale di prescrizione.
3. Con il terzo motivo è stata denunciata la violazione falsa applicazione – ex art. 360 nn. 3, 4 e 5 c.p.c.- degli articoli 2043, 1218 e 1453 c.c., nonché 99 e 100 c.p.c.
Si criticano gli approdi ai quali è pervenuto il giudice del gravame in tema di accertamento della natura contrattuale delle prestazioni contributive, di qualificazione dell’onere risarcitorio come avente natura contrattuale e si denuncia omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia ai sensi dell’articolo 360 numero cinque c.p.c..
Era, infatti, nella specie da escludersi che il mancato versamento dei contributi – relativi ad un periodo in cui l’interessato non era stato assunto – potesse qualificarsi come inadempimento dell’obbligo contrattuale, invece ravvisabile soltanto nell’ipotesi in cui detta omissione venga perpetrata dall’azienda, in danno del lavoratore, nel corso di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
Si deduce che nel caso di sentenza costitutiva – efficace ex nunc – di accertamento dell’obbligo di assumere il lavoratore in una data anteriore al sorgere del rapporto subordinato a tempo indeterminato, la determinazione del diritto del lavoratore al risarcimento per il mancato versamento degli stipendi, non può andare ad incidere sul versante contributivo sotteso al rapporto.
4. Con il quarto motivo la società ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione – ex art. 360 nn. 3, 4 e 5 c.p.c.- degli articoli 2043, 1218 e 1453 c.c., nonché 99 e 100 c.p.c. in relazione alla sentenza di condanna generica e riguardo al t.f.r. – error in procedendo.
Infatti, la condanna generica pronunciata dalla Corte capitolina derivava non già da una omissione volontaria, bensì da una inesatta contribuzione, che avrebbe dovuto imporre al S., in primo grado, di formulare dei conteggi e chiedere l’esatta prestazione. In mancanza di ciò, ogni avversa domanda di risarcimento ad un ipotetico danno per ricostruzione della posizione contributiva risultava inammissibile, di modo che andava cassata l’impugnata pronuncia nella parte in cui aveva riconosciuto all’appellante un generico diritto a risarcimento del danno.
5. Avuto riguardo alla ratio decidendi della sentenza impugnata, il secondo motivo di ricorso va esaminato in via preliminare perché potenzialmente decisivo.
Ed invero, in applicazione del principio processuale della “ragione più liquida”, desumibile dagli artt. 24 e 111 Cost., la causa può essere decisa sulla base della questione ritenuta di più agevole soluzione, anche se logicamente subordinata, senza che sia necessario esaminare previamente le altre, imponendosi, a tutela di esigenze di economia processuale e di celerità del giudizio, un approccio interpretativo che comporti la verifica delle soluzioni su! piano dell’impatto operativo piuttosto che su quello della coerenza logico sistematica, e sostituisca il profilo dell’evidenza a quello dell’ordine delle questioni da trattare ai sensi dell’art. 276 c.p.c. (vedi ex plurimis Cass. 9/1/2019 n.363, Cass. 11/5/2018 n.11458).
Orbene, per la soluzione delle questioni sottoposte al vaglio di questa Corte, non può prescindersi dalla considerazione che, alla stregua dei dati acquisiti agli atti, e diversamente da quanto dedotto dai giudici del gravame, il tentativo di conciliazione propedeutico alla instaurazione del giudizio di primo grado – recante numero r.g. 42293/2009 – è stato promosso dal S. con atto datato 7 ottobre 2009, e non 7 ottobre 1999, come desumibile dal tenore della sentenza impugnata, versata in atti, ed il cui testo risulta specificamente riportato in ricorso.
L’atto interruttivo della prescrizione posto in essere dal lavoratore, va dunque, collocato temporalmente, alla data indicata del 7 ottobre 2009.
Occorre a tal punto procedere alla individuazione dei termini prescrizionali applicabili alle domande – quale quella oggetto di vaglio nella presente sede – proposte a titolo risarcitorio, in relazione alla violazione degli obblighi contributivi gravanti sulla parte datoriale.
6. In via di premessa, è bene rammentare come questa Corte abbia in più occasioni affermato (cfr. Cass. 22/1/2015 n.1179 e in motivazione, Cass.7/2/2018 n.2964) che l’omissione della contribuzione produce un duplice pregiudizio patrimoniale a carico del prestatore di lavoro, consistente, da un lato, nella perdita, totale o parziale, della prestazione previdenziale pensionistica, che si verifica al momento in cui il lavoratore raggiunge l’età pensionabile, e, dall’altro, nella necessità di costituire la provvista necessaria ad ottenere un beneficio economico corrispondente alla pensione, attraverso una previdenza sostitutiva, eventualmente pagando quanto occorre a costituire la rendita di cui all’art. 13 della legge 12 agosto 1962, n. 1338.
Prima del raggiungimento dell’età pensionabile, la situazione giuridica soggettiva di cui può essere titolare il lavoratore nei confronti del datore di lavoro, consiste nel danno da irregolarità contributiva, a fronte del quale il lavoratore può esperire un’azione di condanna generica al risarcimento del danno ex art.2116 cod. civ., ovvero di mero accertamento dell’omissione contributiva quale comportamento potenzialmente dannoso; e tale diritto al risarcimento del danno – come correttamente acclarato dai giudici del gravame – è soggetto a prescrizione decennale.
La responsabilità del datore di lavoro per danni subiti dal lavoratore a causa di mancata o irregolare contribuzione rappresenta, infatti, un’ipotesi di responsabilità contrattuale, derivante dalla violazione di una specifica ed indisponibile obbligazione imposta dalla legge, da ciò conseguendo che il termine di prescrizione della relativa azione risarcitoria è quello di cui all’art. 2946 cod. civ. (vedi Cass. 15/6/2007 n. 13997, Cass. 25/11/2009 n. 24768).
E’ stato al riguardo chiarito che le somme spettanti a titolo di risarcimento danni per la violazione degli obblighi facenti carico al datore di lavoro hanno natura retributiva – e sono quindi da computare nella retribuzione imponibile ai fini contributivi – solo quando derivino da un inadempimento, il quale, pur non riguardando direttamente l’obbligazione retributiva, tuttavia immediatamente incida su di essa in quanto determini la mancata corresponsione di compensi dovuti al dipendente (vedi Cass. 21/5/2012 ’ 7987), situazione questa, indubbiamente ravvisabile nella fattispecie considerata.
7. Peraltro, sempre in conformità all’insegnamento di questa Corte, deve rimarcarsi che il venir meno del diritto del lavoratore alle prestazioni previdenziali ed assistenziali, e la consequenziale insorgenza del diritto alla prestazione risarcitoria, si verifica soltanto al maturarsi della prescrizione del diritto degli istituti previdenziali al versamento dei contributi omessi.
Con riferimento all’azione volta a conseguire la rendita vitalizia di cui all’art.13, della I. n. 1338 del 1962 a spese del datore di lavoro, per effetto del mancato versamento da parte di quest’ultimo dei contributi previdenziali (ipotesi comparabile, per quel che qui rileva, alla azione risarcitoria per omissione contributiva esperita nel presente giudizio), si è affermato che il diritto del lavoratore è soggetto al termine ordinario di prescrizione, decorrente dalla data di prescrizione del credito contributivo dell’INPS, senza che rilevi la conoscenza o meno, da parte del lavoratore, della omissione contributiva (vedi ex plurimis, Cass. S.U. 14/9/2017 n.21302).
Per addivenire, quindi, al corretto computo dei termini prescrizionali applicabili alla fattispecie scrutinata – dato atto che il termine decennale di prescrizione del diritto azionato nel presente giudizio decorre, per quanto sinora detto, dal momento in cui i crediti contributivi si sono prescritti perché in quel momento si realizza la fattispecie produttiva del danno ed il diritto poteva essere azionato (art.2935 c.c.) – al fine di individuare il dies a quo di decorrenza di detto termine prescrizionale decennale, è necessario aver riguardo all’art. 3 della I. n. 335 del 1995 – che ha ridotto a cinque anni il termine di prescrizione per le contribuzioni di previdenza e assistenza sociale obbligatorie, prevedendo che continua ad applicarsi il vecchio termine decennale unicamente nel caso di atti interrottivi già compiuti o di procedure finalizzate al recupero dell’evasione contributiva iniziate durante la vigenza della precedente disciplina (ipotesi queste non verificatesi nella specie).
Deve quindi ritenersi che la prescrizione dei crediti contributivi relativa al periodo 1° gennaio 1990-16 gennaio 1995, si sia verificata nel quinquennio successivo fino all’inizio del 2000.
Sarà quindi, dalla scadenza di tale termine di prescrizione, che potrà decorrere l’ulteriore termine di prescrizione decennale, del credito risarcitorio (1-1-2000/16-1-2010).
8. In definitiva, alla stregua delle superiori argomentazioni, considerato che la Corte distrettuale ha erroneamente ritenuto che il decorso della prescrizione dei crediti azionata dal S., sia stato interrotto dal tentativo di conciliazione in data 7/10/1999, proposto invece in data 7/10/2009, la impugnata sentenza deve essere cassata, con rinvio alla Corte designata in dispositivo la quale, nello scrutinare compiutamente la vicenda delibata e provvedendo anche in ordine alle spese del presente giudizio di legittimità, si atterrà ai principi di diritto innanzi enunciati.
P.Q.M.
Accoglie il secondo motivo di ricorso, assorbiti gli altri; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese del presente giudizio, alla Corte d’Appello di Roma in diversa composizione.